di Michele Zanetti
Pubblichiamo l’intervento pronunciato da Michele Zanetti al convegno "Acque alte a Mestre e dintorni" che il 20 febbraio 2010 ha concluso il primo “Laboratorio di storia e geografia delle acque in terraferma” organizzato da sAm insieme ad alcuni altri amici. Gli organizzatori non potevano immaginare che quel 20 febbraio avrebbe chiuso una settimana grigia e assai piovosa. Per seguire l’attività di Michele Zanetti, si può consultare anche il suo sito.
Cosa mai può venirvi a raccontare un naturalista, che per quarant’anni è stato semplicemente un “osservatore del territorio”, su problemi idraulici gravi e irrisolvibili come quelli evocati dal tema del convegno? Perché qui, non c’è nulla da risolvere. Vi dico semplicemente che negli ultimi 5000 anni, cioè nel tempo in cui questo territorio è stato colonizzato più o meno stabilmente dall’uomo, di alluvioni se ne sono succedute a migliaia. E aggiungerò un’altra cosa sconvolgente: se si ripresenta un altro ’66 non possiamo evitarlo, né evitare i danni che provocherà, così come non s’è potuto far nulla rispetto alla precedente alluvione. Con tutte le opere idrauliche che noi possiamo realizzare, gli eventi assolutamente eccezionali della natura non possono essere evitati: è inevitabile subirli.
Ovviamente noi ci abbiamo messo del nostro, e tanto impegno, per subire i danni persino di eventi banali, come ad esempio le precipitazioni abbondanti e le conseguenti microesondazioni che negli ultimi anni si sono verificate con un crescendo esponenziale. Tutti si dimenticano che è in atto il riscaldamento globale; ma sapete cosa significa? Significa una perturbazione del regime delle precipitazioni con fenomeni di elevatissima intensità e concentrati in unità di tempo molto limitate. Sapete cosa significa 200 mm di acqua in un giorno? Significa un quarto di tutta la pioggia che scende per effetto delle normali precipitazioni nell’arco di un anno intero. Non c’è nessun sistema che possa smaltire 200 mm di pioggia in un giorno, tanto più se una città è cresciuta intorno a un fiume, l’ha canalizzato, l’ha “fognizzato” – consentitemi questo orribile neologismo. Quel fiume è un canale imbrigliato che non può più respirare e dunque non è più fiume. Perché è stretto tra superfici impermeabilizzate che vi scaricano dentro un’enorme quantità d’acqua e tutto questo, ormai, non può più essere sostanzialmente modificato.
1. Prima di entrare nel vivo della proposta, vi racconterò che sono stato guardiacaccia provinciale. Come tale facevo parte della protezione civile, una delle entità più indefinite di cui personalmente ho fatto parte, anche perché a mio avviso non eravamo né preparati, né all’altezza del compito assegnatoci: sia dal punto di vista organizzativo, che per la preparazione tecnica necessaria.
Un giorno – si era sul finire degli anni ’90 – ci mandarono nell’entroterra mestrino perché un fiume stava straripando e ci ritrovammo, sotto una pioggia battente, in circa dieci guardiacaccia, quindici militari e cinque vigili del fuoco, a riempire sacchi di sabbia per cercare di sistemare una falla nell’argine. Ebbene dopo mezz’ora giunse un elicottero che doveva compiere il miracolo del tamponamento e risolvere il problema, ma poi non ci fu accordo su chi pagava le spese e l’elicottero se ne andò. Prima di andarsene il pilota comunicò quanto segue: “Duecento metri a monte della vostra posizione ci sono dieci falle più grandi di quella di cui vi state occupando, che stanno scaricando liberamente acqua nei campi”. Al che un collega decise di andare a vedere; si fece una passeggiata lungo l’argine e scoprì che l’argine praticamente non c’era più. Tutto questo mentre noi stavamo tentando di ostruire una piccola falla con dei sacchetti di sabbia. A quel punto raccogliemmo i nostri attrezzi e ce ne andammo. La cosa che mi impressionò di più in quella circostanza fu che quel fiume era chiuso tra due argini con le sponde verticali alte un metro e mezzo sul piano campagna. In altre parole, era praticamente chiuso in una camicia di forza.
Ma come si può pretendere che un fiume così “sistemato” in termini idraulici – perché questa è la “sistemazione idraulica” – possa reggere a una piena qualsiasi?! E non c’erano le nutrie che traforavano gli argini – perché si è trovata anche questa motivazione. Qui è tutto il sistema che non funziona, non sono le nutrie, le nutrie sono arrivate appena l’altro ieri.
Il Canale Osellino alla periferia orientale di Mestre
2. Ecco allora la proposta – assolutamente utopica, quasi una provocazione: nientemeno che il Prato di Mestre. Abbiamo fatto o stiamo facendo il Bosco a Mestre e con risultati incoraggianti. Ora facciamo il Prato di Mestre e facciamolo lungo il fiume, cioè diamo modo ai fiumi di avere una cassa di espansione lineare, larga almeno 50 metri, che consenta loro di aumentare notevolmente il profilo e la portata dell’alveo di piena e di perdere il più possibile di acqua per infiltrazione nel caso di eventi meteorici straordinari.
Il prato, quest’ambiente banale e al tempo stesso così domestico, così familiare, sta scomparendo dai nostri territori. Quando vedete un prato in periferia sappiate che non è un ambiente conservato a fini di carattere ecologico, paesaggistico, ricreativo: è solo l’antefatto di un’urbanizzazione. E mentre i boschi si ricostruiscono, i prati non si ricostruiscono perché nessuno ne ha mai valutato l’importanza. Ebbene, il prato ha l’indice di infiltrazione idraulica maggiore che esista, ancora più delle casse di espansione di cui vogliono dotare il Piave all’altezza di Nervesa della Battaglia. Quelle casse, infatti, sono formate da ciottoli, che sembrano certo il materiale più permeabile del mondo, ma che dopo una piena si impermeabilizzano di limo per cui non filtra più nulla. Mentre nel prato, con il lavoro che le piante erbacee continuano a svolgere in termini di sviluppo dell’apparato radicale, l’acqua riprende a filtrare anche dopo una piena che abbia depositato uno strato di limo sopra il livello erbaceo.
Ecco allora che la mia proposta è semplicemente questa. E allora qualcuno mi dirà: “Guarda che per realizzare un prato lineare che accompagni tutti gli alvei, piccoli o grandi, del sistema Marzenego servono centinaia di espropri e la gente non ci sta”. Certo, potrei rispondere, ma la gente, ogni volta che si verifica una piccola alluvione chiede i danni; è come se vivesse su un altro pianeta, come se si fosse accorta il giorno stesso che esisteva una situazione ingovernabile, ingestibile. Allora la gente deve convenire con queste cose e accettare anche qualche sacrificio.
Mi viene in mente il paradosso della Cina dove abbattono quartieri interi per realizzare altre opere. Hai voglia di espropri, in quel caso! Ma molto più vicino a noi mi sovviene della Pedemontana; avete presente? 1100 espropri per costruire una strada, che ovviamente dal punto di vista ambientale andrà ad aggravare tutta una serie di problemi. Però nessuno riesce a pensare che questo sia possibile per mettere in sicurezza un fiume.
Che significato avrebbero questi prati in fin dei conti? Semplicemente quello di trasferire le aree verdi, ovvero le aree ricreative, all’interno delle golene fluviali e di conservarle in forma di prato falciabile.
3. Mi rendo conto benissimo che, nella nostra realtà, è un’utopia; nel senso che nessuno si prenderà mai in carico un’idea di questo tipo, né cercherà di formulare un progetto. Però, vi confesso che mi ha sollevato molto, nel visitare le cave di Salzano l’estate scorsa, il fatto di scoprire che sono diventate una cassa di espansione del Marzenego. Un’intuizione tanto banale quanto geniale – anche se l’espressione sembra un ossimoro. Finalmente un complesso di cava senile, oltretutto anche di grande interesse naturalistico, è stato valorizzato anche nel segno della sicurezza idraulica.
Ebbene, mettendo assieme una serie di interventi di questo tipo, ricostruendo questo “alveo di respiro” del fiume in ogni tratto in cui sia possibile, alla fine la situazione probabilmente non si risolve, ma migliora tantissimo. Possiamo ridurre le microalluvioni che tanti danni fanno, magari da dieci a cinque, tenendo presente che dobbiamo rassegnarci al fatto che le perturbazioni meteoclimatiche ci rovescino addosso anche quantità di acqua che non riusciremo a gestire e che per questo non c’è nulla che possiamo fare.
Ho chiamato dunque il Prato di Mestre “proposta utopica ideale”, perché in contrasto con le opere che caratterizzano la geografia dell’uomo; le stesse che hanno penalizzato duramente il territorio, le sue strutture e le sue vocazioni naturali. Di questo possiamo renderci conto perfettamente visitando la periferia di Mestre. Ormai di naturalità non si parla più in nessuna circostanza, in nessun ambiente della regione Veneto, se non sopra i 2.500 metri di altitudine. Ma gli ambienti che l’uomo ha addomesticato sono stati gravemente alterati e molto spesso sviliti dalle infrastrutture; e tra le strutture naturali, il destino peggiore è toccato ai fiumi.
Accumulo di rifiuti e di biomassa vegetale di sfalcio presso uno sbarramento sul fiume Vallio a Marteggia (Meolo, VE)
4. I fiumi sono stati deviati, ricalibrati, lordati, trasformati in misere condotte di scolo fognario. Tenete presente che i centri urbani sono sorti tutti lungo i fiumi non solo perché questi garantivano la risorsa idropotabile, ma perché fungevano da impianto di smaltimento dei rifiuti urbani e paradossalmente ancora oggi li usiamo per questo. Provate ad andare lungo la Strada Provinciale Jesolana, a metà strada tra Portegrandi e Caposile e osservate il fiume Vallio che giunge alla laguna dalla civilissima provincia di Treviso. In quel punto, ovvero presso il ponte della Provinciale, ogni quindici giorni una benna viene ad asportare i rifiuti urbani – plastica, vetro, ecc. – che si accumulano in corrispondenza del sifone che porta l’acqua del Vallio in laguna. Ovviamente i rifiuti che navigano a mezz’acqua non si vedono e finiscono direttamente in laguna, dove poi li ritroviamo sulle barene di Campalto. E pensare che siamo tra i più civili popoli del mondo, o almeno vorremmo esserlo.
Cartello presso il centro di Maerne (Martellago, VE)
Presso il centro urbano di Martellago c’è il divieto di utilizzo dell’acqua. Un fiume, il Marzenego, passa in mezzo alla città e sulla sponda campeggia un cartello in cui sta scritto: “divieto di utilizzo dell’acqua”. Ma dove siamo? L’acqua è una risorsa sacra; è di tutti ed è, soprattutto, una risorsa imprescindibile. Trovo semplicemente incredibile ed emblematico un cartello con divieto di utilizzo dell’acqua. Eppure, per presunti risparmi sui costi di gestione, gli alvei vengono persino diserbati chimicamente. Il Consorzio di Bonifica San Donà di Piave, per risparmiare sugli sfalci in alveo che si praticavano storicamente, nella rete idraulica minore impiega botti di diserbo, che sparge nell’acqua per contrastare il proliferare delle piante acquatiche. E così lo mette in circolo: il diserbante entra nella catena alimentare e finisce… nel nostro fegato. Il micidiale tumore al pancreas dipende, peraltro, da ciò che respiriamo, mangiamo e beviamo. Ma tutto questo viene praticato con la massima disinvoltura e nella massima indifferenza dei cittadini. Quando, negli anni Novanta ho tentato di chiedere: “Scusate, ma cosa c’è dentro il prodotto chimico che usate per diserbare?”, mi hanno risposto: “Non preoccuparti, c’è solo Simazina”. La Simazina è un parente dell’Atrazina, ma non si sapeva cosa provocasse, perché non erano stati fatti studi specifici e nel lungo periodo; almeno in quegli anni.
Il Marzenego all’altezza delle Cave Santurbi a Salzano (VE)
5. Come coniugare la sicurezza idraulica con la necessaria riqualificazione fluviale? La ricetta è persino banale, ha un vago sapore di utopia ed è appunto l’utopia dei prati: dotiamo questi fiumi di banchine golenali, le più ampie possibili e mantenute a prato. Consentiamo ai fiumi di respirare nuovamente, di dialogare con la falda, perché i piccoli fiumi arginati, in cui l’acqua scorre a velocità molto elevata e in cui magari basta una modesta ansa per provocare la rottura del dosso arginale, non dialogano più con la falda, non la ricaricano più. Le precipitazioni torrenziali, quelle dei 200 mm in una giornata, non vanno a rimpinguare in falda, ma dilavano tutto lo sporco possibile in superficie e vanno a finire in laguna. E questa è un’altra circostanza disgraziata.
La proposta è dunque semplice: creare una fascia di prateria a ridosso degli argini con funzione di cassa di espansione, favorendo la fitodepurazione e la ricarica della falda freatica, come è stato fatto all’altezza delle cave di Salzano. Credo che se avessimo chiesto ai bambini della scuola elementare di fare una proposta avrebbero detto la stessa cosa. Da questo punto di vista sento che ciò che vi sto esponendo è assolutamente banale.
Però le difficoltà ci sono, perché una scelta di questo tipo implica, come si accennava in precedenza, l’acquisto delle superfici perifluviali non urbanizzate, ovunque possibile, e con un investimento certo inferiore a quello del Passante o della Pedemontana o del Corridoio 5 o dell’Alta Velocità, però sempre un investimento. Ma chi investe in queste cose? A chi interessa?
Avete mai sentito che si decida di fare un grande progetto per la messa in sicurezza dei nostri fiumi?
I progetti vengono fatti per le grandi opere; quelle che muovono miliardi di euro, non per queste cose. Qui si va a vedere il tombino, ci si perde negli arabeschi di una situazione frammentata e per questo alla fine ingovernabile. Invece dovrebbero essere rifatti gli argini ai margini esterni delle nuove fasce alveali, con conseguente ricalibratura sostanziale degli stessi alvei. Porto il caso del fiume Reghena che è accompagnato da bellissime praterie a monte di Portogruaro. Il Reghena, che pure attraversa la propaggine meridionale dell’abitato di Portogruaro, non ha mai dato problemi in quel tratto, perché queste casse di espansione naturali hanno sempre funzionato egregiamente e continuano a farlo.
I prati di Mestre saranno pertanto del tipo a fascia perifluviale, realizzati con la maggiore continuità possibile; potranno anche essere discontinui, comunque tali da restituire respiro ai piccoli fiumi del sistema Marzenego. Piccoli fiumi ora chiusi in quelle che ho definito “camicie di forza”. Ancora per fare un esempio, il bosco dell’Osellino potrebbe diventare un’altra piccola cassa di espansione del Marzenego.
6. Lungo il tragitto da Musile di Piave a Mestre, oggi, osservavo i fiumi. C’era il Sile che sfiorava direttamente in laguna attraverso l’incisione dell’argine all’altezza delle Trezze; l’acqua era veramente alta. Il Marzenego aveva acqua altrettanto alta. Ebbene, nel tratto a monte del bosco Osellino c’è un sistema di prati che attende di essere urbanizzato e che abbiamo recentemente studiato con l’Associazione La Salsola e Pino Sartori. Questi prati potrebbero costituire un’eccellente cassa di espansione e al tempo stesso un’area verde di grande interesse ricreativo e conservazionistico. Pensiamoci a queste cose, facciamone richiesta come cittadini. È chiaro che si andrà contro gli interessi di qualcuno. Non accade mai che queste scelte possano essere gratuite, difficilmente può accadere, però se vanno a beneficio di tanti, qualche probabilità di spuntarla alla fine la si avrà pure.
Brevissimo elogio dei prati, senza tediarvi oltre: sappiate che un prato è un ecosistema complesso, straordinariamente interessante, assai meno banale di quanto generalmente si riesca a percepire. Persino la piramide ecologica di un prato è complessa. Il prato è stratificato come il bosco, ci sono muschi, ci sono erbe di piccole, medie, alte dimensioni e c’è un livello di biodiversità che può arrivare a cinquanta specie vegetali, il doppio di quanto si osserva in una barena della laguna di Venezia. Questi prati sono quelli con cui proporrei di prevenire i danni dei fiumi minori che formano il “sistema Marzenego”; per restituire, insieme alla sicurezza idraulica, anche il paesaggio ai piccoli fiumi.
Concludendo vorrei azzardare: il livello di cultura e di civiltà di una società non si misura nella presenza del treno ad alta velocità e neppure nel numero delle corsie autostradali di cui si è dotata, bensì nella qualità dell’acqua che scorre nei fiumi, nelle entità delle superfici forestali e prative e nella compatibilità ecologica delle misure adottate per mettere in sicurezza il territorio.
matteo dice
il livello di cultura e di civiltà della nostra società (entroterra veneziano specialmente)infatti e’ di una ignoranza imbarazzante grazie ai nostri padri che ci hanno insegnato a mettere come primo bene e valore i SCHEIIIIII