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La stessa acqua. 4 novembre 1966, 26 settembre 2007

18/02/2010

di Orietta Vanin

Acque che si portano via i ricordi di una vita. Una testimonianza presentata al seminario Acque alte a Mestre e dintorni del 10 novembre 2009. Le foto provengono dall’archivio di Orietta Vanin.

Il luogo. Località Cipressina, quartiere popolare limitrofo a Mestre, anagraficamente mandamento della frazione di Zelarino in Comune di Venezia.

Caratteristiche. Zona densamente popolata dagli anni del secondo dopoguerra, organizzata empiricamente in vie e strade private e pubbliche, perpendicolari alla strada principale “Castellana”. L’architettura popolare del periodo che caratterizza il quartiere realizza edifici a tre o quattro piani, divisi in appartamenti di piccole e medie dimensioni, o modeste casette monofamiliari, a due piani con i tetti a falda spiovente e un minimo giardino.

“Castellana”. Strada interprovinciale che unisce Venezia al territorio padovano, arrivando poi a Castelfranco Veneto. Con il tempo rialzata dal territorio circostante, oggi in alcune località, come la Cipressina, si eleva per più di un metro e trenta dal piano campagna.

Territorio. Campagna, che si caratterizzava per il fiume Marzenego che ne accompagnava il percorso, in una convivenza attenta, in passato, al reciproco equilibrio. Abitata su entrambi i lati del fiume, ha una lunga storia, per i suoi mulini e le sue comunità. Le inondazioni sono state varie. Sempre contenute e limitate, derivavano dal fiume, tortuosamente disteso nel territorio, coprivano la campagna in un ritmo legato alla laguna, che faceva risalire l’acqua verso l’interno, seguendo le maree e le stagioni, come ancora racconta chi – come mia madre, nata nel 1932 – le ha viste e vissute.

Allora il fiume non era un pericolo.

I fatti e i ricordi.

4 novembre 1966

Piove da giorni e il vento scirocco sospende e blocca la marea dentro la città di Venezia, ma anche tutta la terraferma ne è coinvolta. Come in un domino, tessera su tessera, crollano le difese di un territorio fragile e ferito da un’idea di progresso che non rispetta la natura di questo ambiente straordinario.

Si è realizzato da poco l’aeroporto Marco Polo, prosciugando la barena, ampliata la zona industriale, edificati interi nuovi quartieri dormitorio, di Mestre e di Marghera, altre strade ed edifici, cementificando e asfaltando senza limiti.

Governanti e speculatori, insaziabili di terra, hanno disgregato il precario equilibrio tra questa terra e la sua acqua, ora impazzita.

Il 4 novembre del 1966, la pioggia in terraferma, invade le strade catramate che non assorbono, e l’acqua si infiltra ovunque, diviene rigurgito nei tubi troppo stretti, e gorgogliando si spande dai tombini, verso e dentro le case.

Via Castellana, in questo momento, è interrotta e bloccata per la realizzazione di un tratto di fognatura comunale nel nuovo quartiere. Quindi, palazzoni, condomini e abitazioni non sono collegati a nulla, e pioggia e fognatura, ritornano per forza di gravità verso le zone più basse.

Ma il fiume, in questo punto, fortunatamente, regge e non straripa.

È la strada il pericolo, per la continua quantità di acqua piovana e di fogna, che riversa verso l’interno.

Tra il fiume Marzenego e la strada Castellana, in un pezzo di terra comprato dalla bisnonna nel 1922, si trovano la casa della mia famiglia, ancora in costruzione, e quella dei miei nonni a pianterreno, l’autorimessa di mio padre e il deposito di legna e carbone, con il camion e le attrezzature, che sono immediatamente allagate.

Tutto si rovina, si bagna, si sporca e galleggia.

Galleggiano i mobili e gli oggetti dentro casa.

Galleggia il legname ed il carbone, fuoriuscito dai contenitori.

Sommerse dall’acqua e dal fango nell’autorimessa, le auto sono relitti di navi affondate improvvisamente.

Annegano l’attività di autonoleggio di mio padre, che cavalcando il nuovo benessere, affitta auto americane, sfacciatamente lussuose, anche se di seconda mano, ai matrimoni dei nuovi abitanti della zona. Le autovetture, agghindate a festa, passavano in corteo emulando in un nuovo rito, le sfilate in carrozza di altri tempi e di altre condizioni.

Quel 4 novembre del 1966, mio padre, con altri abitanti del quartiere, stanchi di aspettare aiuti che non arriveranno mai, rompendo i collegamenti occlusi dei lavori in corso, permise in alcuni punti della strada di far defluire l’acqua.

 

Di questa alluvione resteranno segni indelebili ancora oggi, nella materia delle cose e dei ricordi.

Il muro perimetrale della casa di mia madre, segnato dalla salsedine che sempre riaffiora, l’ombra scura e giallina dell’acqua subita, negli oggetti personali e nei mobili, e per lungo tempo nella tappezzeria delle poche auto recuperate.

I ricordi del nonno ammalato, portato in salvo al primo piano, di noi bimbi, chiusi in casa per giorni, e immagini in bianco e nero, che come tatuaggi segnano la memoria dell’infanzia e la storia di una famiglia, per la quale non ci sarà alcun risarcimento economico, né aiuto pubblico.

Da allora, si parlerà in città del nuovo canale scolmatore, che doveva dare sicurezza all’intero territorio. Verrà terminato e inaugurato nel 2000.

26 settembre 2007

Torno a costruire la mia nuova abitazione nello stesso luogo, sono passati quarant’anni, ma non ho serbato la memoria di quell’evento, ero troppo piccola, e nel progetto penso lo spazio come forma del pensiero, e non ascolto, imprudente, le parole di mia madre.

Settembre 2007, la mia casa dentro è finalmente finita e da pochi giorni vivo qui, è a più piani, con una grande stanza seminterrata, per me preziosa, riservata incoscientemente al lavoro e allo studio.

Sono le 7.00 del mattino, oggi è il 26 e a scuola ho le prime ore di lezione, il tempo è brutto e piove. Nel cielo pesante e basso, colore dell’acciaio e del fango, grigio sporco, manca completamente il sole e la luce è fredda, livida. Mi avventuro con preoccupazione in questa strana giornata.

La pioggia sembra una tenda, i cui fili continui scorrono carichi d’acqua e si srotolano infiniti fino a terra, da dove si dipanano in rivoli impazziti e ribelli.

Non voglio prendere l’auto, ma gli autobus non passano. Riluttante, ritorno in giardino e salgo in macchina, e pensando che la tangenziale sarà bloccata, attraverso la città verso Marghera.

Alle 7.40 sono ancora in via Piave.

Ferma in coda, la mia auto è una barca ammarata mentre il motore si spegne e annega esalando l’ultimo rantolo. L’acqua sale e arriva al volante, esco a fatica dall’abitacolo in mezzo a decine di veicoli ormai vuoti. Vi rimarrà sommersa per tre giorni.

Sono quasi le 8.00 e ritorno verso casa.

Cammino, immersa fino alla vita nell’alluvione come in un incubo, e arrivo all’incrocio principale dove altre auto s’incolonnano senza che nessuno le fermi. L’acqua ora mi arriva al ginocchio.

Nel nuovo sottopasso di via Castellana completamente allagato, le luci di un’auto di lusso invasa dall’acqua, continuano inutilmente a lampeggiare. L’alluvione a volte può essere democratica.

Arrivo a casa e riesco a entrare, mentre continua a piovere.

Mi rendo conto che è già tutto avvenuto e, annichilita, mi sento impotente.

L’acqua dalla strada ha invaso il giardino e il marciapiede, straripando nelle bocche di lupo del seminterrato. La fognatura è risalita dai collegamenti interni del bagno, affiorando e riempiendo ogni vuoto.

Inondata dall’alto e dal basso, la stanza seminterrata è diventata uno stagno scuro e maleodorante, dove acqua e fogna arrivano quasi al soffitto. Non posso entrarci.

Posso solo guardare la scala di accesso riempirsi inesorabilmente di liquido scuro, ricordando inutilmente tutto ciò che vi si trova.

Qui avevano trovato posto nei mobili recenti e di famiglia, i libri e le fotografie, i dischi e le vecchie cassette audio, il PC e la TV, quadri e disegni, insieme al materiale di studio raccolto nel tempo, con gli oggetti del vivere quotidiano, necessari e indispensabili, dal ferro da stiro alla caldaia, nei loro spazi dedicati.

Tutto è sommerso.

Inutilmente cerco aiuto, vigili del fuoco e protezione civile ricevono la mia chiamata ma non verranno mai a soccorrermi. Ci sono chiamate più importanti.

L’idraulico amico e una vicina gentile, nel tardo pomeriggio, dopo aver risolto le urgenze personali mi prestano due piccole pompe, che collegate empiricamente con tubi di fortuna, entrate in funzione impiegheranno quarantotto ore a svuotare la stanza.

Per più giorni, aiutata dai familiari più cari e dagli amici più veri, lavorerò per rimuovere mobili e oggetti dall’ambiente allagato, nell’inutile tentativo di salvare qualcosa da questo naufragio.

La mia casa è inabitabile. Gli impianti – idraulico, elettrico e di riscaldamento – sono stati danneggiati completamente. Comprendo la parola “sfollato”.

Mi serviranno molto tempo e risorse, non solo economiche, per ripulire, disinfettare, restaurare, riparare e ricostruire.

Ho perso molte cose, forse tra le più preziose per me, le foto di mia nipote e i ricordi della mia infanzia. L’alluvione ha violato la mia casa, e anche se di nuovo bianca, nei muri candidi e negli oggetti puliti, per me non sarà più la stessa, e io con lei.

Voglio solo sperare che ora, in questa città e in questi luoghi, non succeda mai più.

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Archiviato in:Centro documentazione città contemporanea, Orietta Vanin Contrassegnato con: alluvione, cronaca, ricordi

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