di Luca Pes
Pubblichiamo qui di seguito l’intervento apparso su “Chioggia. Rivista di studi e ricerche”, numero 20, aprile 2002.
Tutta la storia è storia locale, nel senso che gli avvenimenti si manifestano e quindi sono osservabili e descrivibili prima di tutto localmente. La storiografia che chiamiamo “generale” è un grado di astrazione in più; mette insieme episodi e vite che hanno sempre una certa unicità. E’ come parlare dell’uomo medio, una figura che consente di generalizzare, ma che andando sul concreto non si trova, perché ogni individuo ha un suo percorso specifico. Non che mi dispiacciano le macrostorie, anzi sono tra le mie letture preferite. Ma un approccio empirico richiede un metodo più vicino alle biografie dei singoli donne e uomini, alla loro umanità. Per me le storie “generali” migliori sono quelle che sono consapevoli di questo scarto tra i percorsi degli individui e le categorie che vengono usate.
Questi ragionamenti richiederebbero prima di tutto la costruzione di un dizionario. La stessa parola “storia locale” è un termine scivoloso, a cui possono essere ricondotti lavori molto diversi, con obiettivi e metodi differenti. Per semplificare, si potrebbe definirne due tipi: le opere che scelgono la dimensione locale per verificare o parlare di questioni di ordine più generale, non necessariamente legate a quel luogo; quelle che assumono il luogo come oggetto di studio, lo rappresentano e ne costruiscono l’identità. Per rendere la distinzione più chiara è possibile riprendere quella fatta da Clifford Geertz che applicata all’attività storiografica suona come la differenza tra storia nel villaggio e storia del villaggio. La piassa di Tiziano Merlin a me sembra un esempio riuscito del primo caso. Si tratta della descrizione del linguaggio e della visione del mondo dei braccianti di un paese della Bassa Padovana, tenendo conto delle singole biografie. C’è un forte legame con i luoghi, ma anche un grande spessore umano e l’oggetto di studio è una classe sociale, il suo ribellismo e la sua sociabilità. Nei lavori del secondo tipo, al centro dell’attenzione c’è il luogo stesso, che viene reificato, diventa organismo vivente. Spesso questi lavori si reggono su un pregiudizio: l’esistenza di una comunità locale non viene dimostrata, né problematizzata. Qualsiasi episodio narrato non fa che confermare l’esistenza di questa comunità che fa da sfondo a tutti gli elementi. Questo stesso pregiudizio è presente nelle storie nazionali che non si confrontano con un dato acquisito dalla storiografia: il processo di costruzione delle comunità immaginate. A questo proposito mi viene in mente quanto è emerso da un seminario sulla storia locale tenutosi negli anni Ottanta presso il Dipartimento di Studi storici dell’Università di Venezia. Il non detto di molte storie di paese nel Veneto è che sono scritte per rassicurare gli abitanti che l’identità locale non è cambiata, il paese e i suoi valori sono ancora gli stessi, nonostante le grandi trasformazioni del paesaggio umano e fisico. Se non si assume come oggetto di studio anche la stessa costruzione dell’immagine della comunità locale, si resta interni alla sua logica, si prende come dato di fatto quello che, da un’altra angolatura, è un uso politico della storia e della memoria.
A parte questo, trovo utile valutare le esercitazioni storiografiche, come le opere d’arte, soprattutto secondo il momento storico in cui vengono condotte. Attorno ad esse non c’è il vuoto: assumono significati diversi a seconda del contesto in cui si situano. Anche la storia locale più empatica e localistica, usata nelle scuole a mo’ di sperimentazione, ha avuto un ruolo positivo nell’avvicinare gli studenti al passato, incuriosirli verso la conoscenza dei posti in cui vivono, accendendo il loro interesse nelle fonti dirette, anche quelle che li riguardano più da vicino, come le foto e i racconti famigliari, uscendo dall’uso esclusivo del manuale che racconta i fatti in modo assertivo. Molte storie di paese, di città o di regioni hanno rappresentato importanti momenti nella lotta sul controllo della memoria collettiva. Le storie locali dell’Ottocento contestualizzate nella storia nazionale sono servite a ritagliare un ruolo alle classi dirigenti del posto nella nazione e a trasmettere un senso di appartenenza all’Italia. Così altre storie locali, in periodi più recenti, sono state utili a contestare immagini di comunità che escludevano certe figure, comportamenti o valori sociali dalla storia dominante. Penso agli studi “dal basso” sulle classi popolari, sul Veneto “rosso” con il suo movimento operaio, i suoi banditi, le sue osterie e i suoi emigranti ribelli che ridisegnano l’identità veneta costruendone una contro-storia molto efficace nel rompere luoghi comuni: l’immagine del Veneto cattolico e pio.
Non è un caso che finiamo col parlare di Veneto. Si è verificata infatti negli anni una specie di ricontestualizzazione della storia locale. In una lunga fase, le storie locali venivano collocate primariamente nella storia nazionale. Più di recente, invece, si è assistito a una loro crescente regionalizzazione. Ormai non si sfugge al luogo comune di vedere come sfondo d’obbligo della storia di un qualsiasi paese tra Venezia e Verona, soprattutto il Veneto. E’ una certezza che mi piacerebbe ci scrollassimo di dosso. Questo è per i motivi suesposti – astrazione e reificazione di cose che andrebbero problematizzate, preferenza per un approccio empirico, vicino alle biografie individuali e alla complessità dell’esperienza e dei comportamenti dei singoli; ma, anche e soprattutto per i conflitti in atto che vedono un uso della storia locale per legittimare precisi disegni politico-istituzionali.
Siamo infatti di fronte a un cambiamento senza precendenti, rappresentato dalla “devoluzione” di molti compiti agli enti locali, tra cui le Regioni, che coinvolge anche le scuole che ora hanno una certa autonomia nel definire parte del curriculo. C’è un braccio di ferro tra la Regione Veneto e lo Stato sulla definizione della natura della Repubblica riformata. Il programma della Giunta Galan parla chiaro: si vuole “forzare” la mano verso una sovranità del Veneto, attraverso l’etnicizzazione del concetto di popolo che ha effetti radicali sulla definizione della cittadinanza. In questa direzione, si è scelto di istituzionalizzare attività identitarie, attraverso la creazione di un “assessorato per le politiche per la cultura e l’identità veneta” che svolge compiti di formazione docenti, organizza convegni, musei folklorici, la raccolta di fonti orali ecc. entrando in pieno nel campo della storia locale, cioè incoraggiandola e ritenendola fondamentale nell’opera di salvaguardia e di diffusione “delle tradizioni e della storia del popolo veneto”. Gestendo le scuole, la Regione avrà strumenti per sollecitare gli istituti nell’uso del “curriculo locale” (che nelle scuole di base dovrebbe ammontare a circa 6 ore a settimanali) per insegnare la storia e la “lingua veneta”. Da questa situazione sembra difficile sfuggire: qualsiasi attività di storia locale rischia di avvalorare il disegno, incluse le contro-storie perché alla fine si misurano sul campo prescelto dalla Giunta ovvero quello dell’identità regionale. Quali sono allora le scelte praticabili davanti a questo quadro, se si vuole continuare a fare storia locale? Accettare l’impostazione della Regione o assumere dei potenti antidoti.
Credo che gli antidoti esistano: fare attenzione al contesto nel quale vengono collocate le esercitazioni didattiche e le ricerche; usare con molto scrupolo ed empirismo le parole; partire dal presente. Il contesto storiografico che fa da sfondo all’oggetto ricerca da’ il senso ultimo e quindi è utile non assumere, senza pensarci troppo, quello più scontato. Anzi può essere interessante considerare per lo stesso evento più contesti possibili e di più tipi, dai conflitti di genere al paesaggio geografico-fisico (Gigi Corazzol per esempio situa le sue storie di banditi “su sfondo di monti”). E’ utile però non limitarsi all’ambito del testo storiografico vero e proprio. C’è anche un contesto più ampio che riguarda tutto il paratesto, dal titolo del volume, all’immagine sulla copertina, dalla collocazione editoriale, all’ambito nel quale viene presentata una esercitazione di storiografia locale. Per il lettore o il pubblico un convegno, spesso è questo che dà il senso ultimo dell’iniziativa. Una ricerca su una strada di Mogliano che non usa mai la parola “veneto”, viene regionalizzata nel momento in cui viene pubblicata in una collana di storia veneta. Il lavoro dello storico non si esaurisce perciò nel resoconto della ricerca, la sua opera viene influenzata in modo determinante dalle sue scelte editoriali e professionali.
Tornando al testo vero e proprio, in questo senso, può risultare utile essere sensibili alle parole che vengono usate soprattutto nel caso di nomi di luoghi e di popolazioni facilmente reificabili. Se per “Chioggia” si intende “Comune di Chioggia” meglio usare quest’ultima espressione; se per “chioggiotti” si intende gli individui che nel registro della popolazione risultano “residenti” nel comune di Chioggia, meglio espressamente esplicitarlo. Se si intende qualcosa d’altro, specificare. Questo aiuta a problematizzare anche le identità locali e consente di assumere come oggetto di studio lo stesso immaginario sulla città: le parole pesano. La cosa richiede un certo sforzo perché le espressioni più comuni ci si appiccicano addosso, ma è un’operazione che vale la pena fare. Infine, partire dal presente: è un antidoto contro un approccio che considera maggiormente degni di attenzione storiografica gli oggetti e le famiglie più antiche e considera dunque al di fuori della storia e dello spirito dei luoghi gli immigrati o le villette suburbane, cose che invece appartengono al nostro paesaggio e possono essere spunto di studi locali proficui, usando i metodi della storiografia. Si tratta di garantire o meno la cittadinanza a tutti i possibili soggetti storici e di non partire con un pregiudizio su ciò che appartiene ad un luogo. Certo, alla fine ognuno di noi farà le sue scelte, ma sarebbe meglio che fossero scelte consapevoli e questo riguarda anche la decisione di dove porre lo sguardo storico nel “locale”.
Bibliografia
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Piero Brunello, Contadini e “repetini”. Modelli di stratificazione, ivi.
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Gigi Corazzol, Cineografo di banditi su sfondo di monti. Feltre 1634-1642, Unicopli, Milano 1997.
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Luca Pes, Descrivere il territorio. Il punto di vista storico, “I viaggi di Erodoto”, a.12, n.34, gennaio-aprile 1998.
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