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Mestre è un goniometro

17/04/2009

di Piero Brunello

Pubblichiamo l’intervento che Piero Brunello ha pronunciato, presso la sala consiliare della Municipalità di Chirignago Zelarino, il 10 novembre 2007, nell’ambito dell’incontro «Sguardi sulla città. Atlanti, confini, immagini e documenti per un archivio sulla città contemporanea». La discussione, a cui hanno partecipato, tra gli altri, Luca Pes, Luciana Granzotto e Giorgio Sarto (curatore della mostra Mestre Novecento), accompagnava l’inaugurazione del «Centro di documentazione sulla città contemporanea», che ospita anche la collezione Maurizio Antonello.

Nota dell’autore

Parecchi anni fa, mentre preparava la sua tesi di laurea poi divenuta un libro, Vittorio «Roi» Beretta mi disse che secondo lui le persone che abitavano a Spinea non provenivano genericamente da Mestre, ma dalle zone di Mestre lungo via Miranese, la strada che porta appunto a Spinea. L’idea del goniometro viene da lì.

La struttura radiale delle strade e della ferrovia caratterizza Mestre: segna e condiziona i trasporti e la mobilità, la suddivisione in quartieri, la crescita edilizia. La cintura di forti militari si è adattata allo schema, e l’ha simbolicamente rafforzato. Ancor più lo ha ribadito la tangenziale, con gli svincoli per la Romea, la Miranese, la Castellana e il Terraglio. Il bordo della laguna ha fatto il resto. 

Quello che ho chiamato «l’ordine del goniometro» presiede anche alla direzione dei venti. Almeno fino al processo al Petrolchimico, si diceva così: dopo un po’ che i fumi delle fabbriche ristagnano sui quartieri, vengono spinti, per fortuna, fuori Mestre, lungo le direttrici che escono dalla città. Chi stava a Campalto assicurava che i fumi si erano allontanati lungo la Romea; per chi abitava a Malcontenta, i fumi si erano diretti dalle parti di Tessera. L’ordine del goniometro, benevolo e rassicurante, scampa Mestre dai pericoli: come ho detto, almeno fino al processo al Petrolchimico, che credo rappresenti uno spartiacque nel modo di immaginare la città.

Questo discorso riflette faccende autobiografiche: gli anni del Villaggio San Marco con i nonni in campagna; le esperienze di cambio casa, mie e delle persone che conosco; le ore in automobile; i tragitti quotidiani in autobus o in treno fino a Venezia; certe passeggiate per riva a Pellestrina, guardando dalla parte di Marghera, quando fa bello.

p.b., marzo 2009

Partirò da questa domanda: dove ci troviamo? dove abbiamo fissato questo incontro?

Ci sono molto modi per rispondere. Possiamo fare il nome di località, di quartieri, di parrocchie, di comuni e via via. Possiamo dire: a Zelarino, a Zelarino-Chirignago, a Mestre, nel comune di Venezia, nella città metropolitana, nel Veneto, nel nord est… Possiamo prendere come punto di riferimento nomi di amici o di persone che conosciamo, negozi, semafori, chiese, edifici notevoli: per esempio «prima del [centro commerciale] Polo, venendo da Mestre, sulla destra».

Partirò invece dalla strada in cui ci troviamo ora, e dirò che ci troviamo «lungo la Castellana». La Castellana, almeno per me, parte da un punto, più o meno là, alle mie spalle, che chiamerò Mestre. Ed è lì, a Mestre, più o meno nel punto dove inizia questa strada, che immagino di trovarmi.

Eccomi dunque: in questo momento mi trovo a Mestre, e, visto che sto guardando verso Zelarino, do le spalle alla laguna. Divido la laguna dietro di me in due parti, grosso modo uguali, alla mia sinistra e a alla mia destra. Sento in questo momento la tranquilla certezza di stare in un centro – a metà tra nord e sud, giusto nel mezzo. Sento che da un lato c’è la «laguna nord» e dall’altro lato la «laguna sud». Insomma mi trovo al centro, mi trovo in un centro.

(Per immaginarmi in questo punto, vorrà dire qualcosa il fatto che la mia famiglia sia stata tra i pionieri che hanno fondato il Villaggio San Marco? e che noi bambini tuffandoci nel Canal Salso trovassimo nel fango monete con il leone di San Marco o con la faccia tutta barba e baffi di Vittorio Emmanuele? o che le greggi di pecore, giunti qui, proprio ai bordi della laguna tornassero indietro, per riprendere le strade verso le montagne?)

Ci sono popoli che piantano un bastone al centro del villaggio per segnalare il centro del cosmo, e spostano il bastone quando cambiano luogo dove costruire un nuovo villaggio. Il bastone può essere messo in qualsiasi luogo. Come questi popoli, anche noi che promuoviamo il Centro di documentazione sulla città contemporanea affermiamo che ciascun individuo, ciascun gruppo associato e ciascun luogo costituisce un centro.

In questo momento, come ho detto, il centro del cosmo segnato dal bastone conficcato per terra è il punto dove mi trovo, con le spalle alla laguna. Qui hanno origine cinque semirette.

Alla mia sinistra una semiretta oltrepassa la ferrovia, costeggia dapprima le ciminiere e subito dopo la laguna: si chiama strada Romea e corre verso Chioggia, i mosaici bizantini, le pianure padane e i lontani Appennini.

Ho nominato immediatamente alla mia sinistra la ferrovia, che divide un luogo che chiamo Mestre, dove mi trovo, da uno che chiamo Marghera, subito al di là dei binari. Ma per il momento tralascio questa suddivisione, e faccio caso solo alla semiretta che va verso sud, cioè alla mia sinistra.

Dalla parte opposta, alla mia destra, corre un’altra semiretta, che segue invece la linea della laguna verso nord e si chiama Triestina: d’estate corre verso i bagni di mare, e d’autunno verso i vini bianchi.

Di fronte a me vedo invece dipartirsi a raggiera tre strade, più o meno a distanza equivalente l’una dall’altra, pressappoco a un intervallo di quarantacinque gradi. Partirò da sinistra.

La prima, al di qua della ferrovia, si chiama via Miranese. Esce dalla città, passa sotto il perimetro delle mura dette Tangenziale, e si avventura verso i parchi e le ville.

Ancora quarantacinque gradi, ed ecco una strada che si chiama via Castellana, che porta a magazzini di vestiti e a reparti di ospedale: noi in questo momento ci troviamo qui, appena oltrepassate le mura della tangenziale.

Altri quarantacinque gradi all’incirca, ed ecco un’altra strada, il Terraglio, che va verso il prosecco, i funghi e le gite in montagna. Questo di giorno: perché il Terraglio a una certa ora di sera cambia come dal giorno alla notte.

Il luogo dove mi trovo è un punto di un goniometro. La base sono le due semirette lungo la laguna. E poi tanti spicchi, segnati da strade.

I corsi d’acqua non sono significativi. Qui nessuno dice «sto alla destra del Marzenego», «sto alla sinistra del Canal Salso», come fanno le popolazioni che vivono sulle rive del Piave o del Tagliamento o della Senna. Nemmeno il quartiere delle Barche, si divideva tra «di qua» o «di là» del Canal Salso, «destra Salso» o «sinistra Salso». Gli anziani ricordano che il quartiere delle Barche era diviso dalla luce del sole – c’era chi stava «dalla parte dell’ombra» e chi «dalla parte del sole».

In questo modo, partendo dalle strade, si vengono a formare dei quadranti. C’è chi vive nello spicchio tra la strada Romea e via Miranese, chi nello spicchio tra la Castellana e il Terraglio, chi nello spicchio tra il Terraglio e via Triestina.

La cosa diventa significativa non appena gli abitanti cercano casa oltre le mura. In questo caso, a meno che non ci siano circostanze particolari e giustificate, in genere motivi di ricongiungimenti famigliari, chi cerca casa segue il proprio quadrante o al massimo quello adiacente. (Si ritiene che le direttrici valgano anche per i fumi delle ciminiere di Marghera, ma questo è un altro discorso, per affrontare il quale dovremmo parlare della rosa dei venti di chi vive in terraferma.) Chi per esempio vive a Favaro, e cioè nel quadrante tra il Terraglio e la linea della laguna su cui si affaccia l’abitato detto anticamente Cep e di recente quartiere Laguna, cercherà casa tra Marcon e Mogliano. Dal quartiere Valsugana, lungo la Miranese, ci si spingerà verso Spinea. Da Marghera ci si avventura lungo la riviera del Brenta. Con queste strategie, gli abitanti ristabiliscono l’ordine cosmico messo in crisi dalla mobilità e dalla dispersione dei luoghi di lavoro, di studio, del tempo libero e dei consumi. Conosciamo tutti, credo, persone che stanno male quando trovano casa in un altro spicchio: e sappiamo a quali strategie ricorrono per ricomporre l’ordine, mantenendo ad esempio legami nel vecchio luogo (dal barbiere alla chiesa, al negozio di ferramenta), oppure allungando la strada in macchina o in autobus pur di passare per i luoghi familiari.

M’immagino di vedere la scena da un satellite. Vedo le persone che sostano molte ore al giorno dentro automezzi sulla via Miranese o sulla via Castellana, o sul Terraglio: alla mattina vedo il percorso avvenire perlopiù in direzione della linea della laguna, alla sera nel verso opposto. Mi faccio l’idea, mentre guardo dal satellite, che le linee radiali del goniometro siano percorsi obbligati, e che sia difficile andarne fuori. Mi faccio l’idea che le comunicazioni trasversali tra i raggi, attraverso percorsi interni ai singoli quadranti, siano complesse, difficili, scoraggiate in molti modi, e tali da richiedere una grande esperienza del territorio che solo i membri adulti della popolazione possiedono. Mi faccio l’idea, sempre dal mio oblò sul satellite, che gli abitanti di questa città vivano molte ore al giorno lungo queste strade radiali per ribadire l’ordine del goniometro, che è un ordine antico messo in crisi dalle nuove esigenze produttive e abitative.

Una controprova? Pensiamo a quando dobbiamo prendere la strada che corre sul perimetro urbano delle mura, intersecando a mo’ di tangente le direttrici del goniometro, tanto da essere detta Tangenziale: grandi avvisi luminosi alle entrate segnalano rischi, mettono in guardia e scoraggiano dall’entrarci; una volta immessi, informazioni, avvisi e comunicazioni ci obbligano a rimanere in una corsia piuttosto che in un’altra, a correre al di sopra di una certa velocità per sgombrare la strada oppure a prendere la prima uscita possibile – tutti segnali volti a distoglierci ancora una volta dallo sfidare l’ordine del goniometro.

Finora ho dato le spalle alla laguna. Ora mi giro verso il ponte che porta diritto a Venezia, davanti a me. È ancora un goniometro quello che sto vedendo? Sono altri 180 gradi, speculari a quelli della terraferma, quelli che m’immagino di vedere da Punta Sabbioni alla mia sinistra, a Pellestrina e Chioggia alla mia destra? O che cos’altro? E se guardassi verso il punto dove più o meno localizzo gli orti di Sant’Erasmo? o il campanile di Burano? E se invece seguissi idealmente l’Osellino, che proprio qui alla mia sinistra devia il suo corso seguendo il bordo della laguna fino alle piste dell’aeroporto di Tessera?

Lascio questo esercizio per ribadire che il Centro di documentazione sulla città contemporanea farà in modo, come ho detto, che ciascun individuo, ciascun gruppo associato e ciascun luogo possa diventare un centro di relazioni, un centro del cosmo.

Quindi, al posto di uno sguardo dal centro, uno sguardo dai margini e l’idea che ogni luogo, ogni individuo e ogni gruppo associato è un centro; al posto di una veduta dall’alto, una prospettiva dal basso e l’idea che non c’è né alto né basso; al posto di un dominio e di un ambito territoriale culturale o etnico nei quali qualcuno ha deciso dove collocarci, luoghi, realtà e contesti di cui riconosciamo la specificità e le relazioni con altri centri, altre realtà e altri contesti.

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