di Piero Brunello
Su concessione dell’editore Donzelli, pubblichiamo un ampio estratto del «Prologo» e un altro breve brano del nuovo libro di Piero Brunello, Storie di anarchici e di spie. Polizia e politica nell’Italia liberale (per una scheda completa del libro, si veda il sito dell’editore, tra le novità). Brunello ha dedicato il suo lavoro alla memoria di Federico Aldrovandi, ragazzo di Ferrara morto a 18 anni, il 25 settembre 2005, durante un controllo di polizia (il processo penale per la morte è tuttora in corso presso il tribunale di Ferrara).
Prologo
Nove uomini, quasi tutti ventenni, si incontrano segretamente in un’osteria di Abano, un paese poco fuori Padova, sulla strada per Rovigo. La polizia, che ne è a conoscenza, li aspetta e li arresta con l’accusa, allora consueta nei confronti degli anarchici, di «cospirazione contro la sicurezza interna dello Stato». Era il 1881, e i tribunali del regno perseguivano l’Internazionale in quanto «associazione di malfattori». I giovani finirono nel carcere milanese di San Vittore.
Pochi giorni dopo il viceconsole di Ginevra Giuseppe Basso manda un telegramma a un dirigente del ministero degli Esteri, a Roma, per chiedere di fare il possibile per liberarli tutti, perché tra di loro c’è un suo agente in partenza per un incontro dell’Internazionale in Belgio. Otto su nove escono dal carcere. Di lì a qualche settimana Giuseppe Basso torna a scrivere a Roma perché sia scarcerato l’unico ancora in prigione, cioè Carlo Monticelli, il promotore dell’incontro. Una volta libero, avrebbe ricevuto da una terza persona i soldi per recarsi all’imminente congresso anarchico di Londra, da dove avrebbe spedito i verbali che sarebbero finiti tra le mani del viceconsole. Monticelli, precisa Basso, non è un agente, ma grazie alla sua «lingua sciolta» il consolato aveva potuto conoscere molte cose. Diversamente da Basso, il dirigente del ministero degli Esteri, che trasmette la richiesta al capo della polizia, definisce Monticelli «confidente del consolato». E Monticelli, di Monselice nel Padovano, è il fondatore dell’Internazionale nel Veneto, primo segretario della Camera del Lavoro di Venezia, autore di poesie e di canzoni, tra cui La Marsigliese del lavoro, entrata nel repertorio anarchico e tuttora conosciuta.
Tra gli arrestati di Abano, oltre a Carlo Monticelli, ci sono due suoi amici: Oreste Vaccari, un ferrarese suo coetaneo, appassionato lettore e collaboratore di riviste della Scapigliatura, e Giuseppe Alburno, scrivano e giornalista di Venezia, l’unico dei nove ad aver passato la trentina. Entrambi sono in contatto col tipografo Carlo Terzaghi, uno dei fondatori dell’Internazionale a Torino, che all’epoca dell’incontro di Abano aveva trentasei anni ed era rifugiato a Ginevra, proprio dove operava il viceconsole Basso1.
[…]
Avrei potuto scegliere l’angolo di visuale del direttore di Pubblica sicurezza a Roma (dal fascismo in poi «capo della polizia»), che smista i rapporti, ricostruisce trame, tralascia alcune piste di indagine per privilegiarne altre. Sul suo tavolo i documenti prendono ciascuno la propria strada. Questo avrebbe messo in chiaro il fatto che è la polizia a scrivere il copione di questa vicenda, disseminandola di trappole, errori e fraintendimenti. Alcuni amici si trovano a pranzo in un locale di un piccolo paese come Abano, in attesa di recarsi la sera a Padova per assistere al Mefistofele di Boito. Di giorno la politica, di sera l’opera. Ma Giovanni Bolis, direttore di Pubblica sicurezza, avvertito con un telegramma, ordina di arrestarli. È lui a isolare quella compagnia di nove giovani, a fissare la scena (l’osteria del giorno e non il teatro della sera), e ad attribuirle un significato: e su quella base produce la documentazione storica. Del resto la polizia non si limita a sorvegliare la vicenda dall’esterno, ma vi è direttamente implicata, come si vedrà, mediante l’utilizzo di agenti provocatori.
Seduto a fianco del direttore di Pubblica sicurezza, invisibile al suo tavolo, avrei seguito la trafila dei documenti dal basso all’alto della scala gerarchica e viceversa, ma non avrei potuto farmi un’idea degli ambienti in cui avvengono le vicende che alla fine confluiscono negli arresti di Abano. Passare da una città all’altra – ogni capitolo una città – mi ha consentito invece di vedere come i primi internazionalisti entrano in contatto tra di loro, e di capire come funziona un controllo di polizia in piccoli contesti e nei rapporti faccia a faccia.
Niente omicidi, niente bombe. Sorveglianza, piuttosto: una sorveglianza muta e perlopiù inavvertita, che produce segnalazioni, fotografie, rapporti, prospetti, schede, bollettini, registri, fascicoli, archivi; una raccolta di dati per quanto misteriosi o poco chiari, anzi, tanto più scrupolosa quanto più il loro significato sfugge.
Osservare, prevenire, reprimere, scoprire: questi gli scopi dichiarati dalla polizia nei primi decenni dell’Unità. Di questi, il più importante – così si leggeva nei manuali – era il primo, e cioè la capacità di osservare «gli indizi che sogliono annunziare il male, prima ancora che avvenga», raccogliendo «anche ciò che sembra di nessuna importanza», «anche il buono e l’indifferente, per districarne il cattivo che vi può essere nascosto, o confuso». Quindi, non solo consuetudine col codice penale, ma soprattutto esperienza nel penetrare «l’indole, gli usi ed i vizi dei cittadini»2. Discrezionalità, in altre parole3.
È importante capire i criteri in base ai quali qualcosa finisce in un dossier. Le donne vi compaiono raramente e, quando succede, sono ritenute delle poco di buono. Le persone istruite e in grado di parlare in pubblico sono giudicate più pericolose di chi non sa né leggere né scrivere. Sono tenute d’occhio le osterie, i bassifondi, i luoghi di assembramento e di ritrovo popolare, gli «oziosi, vagabondi e mendicanti» e tutte quelle «classi pericolose» a cui il direttore di Pubblica sicurezza Giovanni Bolis dedicò un volume di un migliaio di pagine4. Nei movimenti collettivi viene fatta una distinzione tra i mestatori, che perseguono obiettivi personali, in genere per ambizione, dalla massa di creduloni che si lasciano abbindolare. Ogni contatto fuori dell’ordinario, cioè da un’idea di gerarchie sociali immutabili, diventa sospetto. Inutile cercare per esempio notizie sulla frequentazione dei bordelli da parte dei giovani sottoposti a controllo per motivi politici, perché frequentare i bordelli era considerato normale (erano le prostitute le persone da censire e da controllare), e così via.
Altrettanto importanti sono il tono e l’intreccio narrativo. I rapporti scritti sulla base di pedinamenti rendono misterioso qualsiasi incontro. Quanto all’informatore, ha una tendenza professionale a drammatizzare. Più allarmistiche sono le notizie, più il mestiere di spia rende.
Questo è un mondo popolato da avventurieri, bugiardi, doppio o triplo giochisti, millantatori e fanfaroni. Siccome vivono vendendo informazioni, quando non ne hanno le spie ne fabbricano di false, confermando e ingigantendo le paure delle autorità. E così le carte di polizia sono piene di cospirazioni inventate di sana pianta e utili solo a giustificare l’esistenza degli apparati che le prendono per buone5.
Ma questo non deve far perdere di vista che qui si tratta di un controllo reale sulle persone, un controllo che produce pedinamenti, perquisizioni, diffide, denunce, sequestro della corrispondenza, convocazioni in questura, arresti, misure di polizia (dall’ammonizione al domicilio coatto), prove in un procedimento giudiziario. I documenti di polizia costruiscono in altri termini delle verità («il tale si è incontrato con il tal altro in un certo luogo a una data ora»), che hanno conseguenze sulla vita delle persone: non solo in quelle direttamente colpite, ma anche in quelle che ne avvertono la presenza. I fogli, muti negli archivi, a un certo punto cominciano a parlare6.
Gli anni in cui si chiude la vicenda, tra il 1880 e il 1881, segnano una fase importante nell’organizzazione della polizia in Italia. Con Giovanni Bolis alla direzione dei servizi di Pubblica sicurezza, viene istituito infatti un Ufficio politico, prende forma un registro biografico delle persone sospette, le questure cominciano a usare le foto segnaletiche e ad assumere agenti in borghese, e viene organizzato un servizio di polizia internazionale in collaborazione con il ministero degli Esteri. Quest’ultimo servizio era iniziato pochi anni prima proprio dai rapporti di quel Giuseppe Basso, viceconsole di Ginevra, che interviene a favore di uno degli arrestati ad Abano. Chi intraprese la carriera nella Pubblica sicurezza sotto la direzione di Giovanni Bolis ricordò quel periodo come «un’epoca di radicali riforme» e di «rosee promesse»7. Detto in altre parole, in quegli anni si andò costruendo in Italia un sistema di polizia basato sul sospetto e sulla criminalizzazione di chi dissente, secondo una prassi ereditata dallo Stato assoluto, che a sua volta riprendeva procedure inaugurate dalla Santa Inquisizione8. Creando la figura del nemico, gli apparati mettono in riga la società, ribadiscono il controllo sui cittadini e giustificano il mantenimento di una legislazione che reprime e soffoca i diritti civili.
I recenti studi sulla polizia fascista mostrano l’utilizzo sistematico, capillare e generalizzato di delatori, spie e fiduciari di vario tipo9. Queste cose non s’improvvisano. Il regime fascista trovò a disposizione sistemi di sorveglianza, procedure di schedatura, metodi di archiviazione, strumenti preventivi e repressivi, una routine burocratica e in generale un rapporto tra cittadini e Stato che si erano andati costruendo fin dall’Unità, e di cui questo libro offre un’esemplificazione. La polizia politica all’estero, a cui il regime fascista si appoggiò per controllare esuli e oppositori politici, nasce, come si è detto, all’epoca del viceconsole Basso. Il Casellario politico centrale accresciuto dal regime di Mussolini è istituito nel 1894: e dietro ci sono, fin dai primi anni del regno, le Biografie degli individui più influenti dei partiti ostili al governo accumulate nel gabinetto del ministero dell’Interno sulla base delle Biografie raccolte da questure e prefetture10. Lo stesso vale per le foto segnaletiche, anch’esse introdotte all’epoca di Bolis: le impronte digitali, quelle verranno utilizzate solo all’inizio del secolo, quando nella burocrazia statale si insediano gli antropologi criminali allievi di Lombroso11.
È sufficiente un sondaggio per lo stesso periodo 1870-1880 negli archivi svizzeri (e la vicenda che ho preso in esame portava a farlo), per capire che paese sia l’Italia. In Svizzera la Confederazione si occupò di sorveglianza politica a partire dal 1888-89. La polizia federale raccoglieva fascicoli personali (Personaldossier) anche prima, però la qualità della documentazione non ha niente a che vedere con quella raccolta negli stessi anni in Italia.
La polizia italiana spia, fa spiare, raccoglie voci e pettegolezzi, sistematicamente, giorno dopo giorno, pagando informatori e confidenti, e distribuendo fondi segreti. Spie al servizio di ispettori, di questori, di prefetti, di consoli, ma non solo: non c’è direttore postale in Italia che non controlli o non trattenga la corrispondenza su richiesta della polizia. L’ideale cui tende la riorganizzazione della Pubblica sicurezza del nuovo regno è quello di poter disporre di tanti archivi quante sono le questure, nei quali «Ogni persona onesta o criminale, vi trova la sua biografia»12.
La polizia svizzera al contrario pare non avere interessi per le opinioni religiose e politiche, o la vita privata dei cittadini. Tranne qualche caso – per esempio il fascicolo di Carlo Cafiero che raccoglie le carte sequestrate al momento del suo arresto – i Personaldossier sono piuttosto poveri13, come ho detto, almeno rispetto ai fascicoli italiani dello stesso periodo, e prima dell’istituzione, di lì a pochi anni, della polizia politica anche nella Confederazione elvetica14.
Diverse oltretutto sono le strutture dello Stato. Nel Regno d’Italia un ministro dell’Interno, quando si rivolge a un prefetto, dà ordini. Quando il Consiglio federale scrive al governo cantonale, si rivolge invece con un «Cari e fedeli confederati». Rapporti come questi rendono più difficile l’accumulo delle informazioni volte alla sorveglianza di polizia, tipico invece di uno Stato centralizzato come il Regno d’Italia. Del resto, ci sarà pure un motivo se gli anarchici italiani scelgono in questi anni la Svizzera come terra d’esilio.
Individuare un inizio significa attribuire già un significato alla storia. Ho cercato, come ho detto, di utilizzare le fonti di polizia non per raccontare il movimento anarchico e la Prima Internazionale, bensì per capire come funzionano i meccanismi di controllo messi in atto dagli apparati statali. Avrei potuto iniziare dalla carriera del viceconsole di Ginevra o del direttore di Pubblica sicurezza o di un ispettore della questura di Venezia, o dall’organizzazione del ministero degli Interni. Oppure, considerando come protagonista di questa storia la schedatura – laddove cioè l’occhio del poliziotto s’incontra con la pratica dell’archivista –, avrei potuto raccontare in che modo si viene formando una scheda biografica, per esempio di un Carlo Monticelli, e un intero sistema documentario. Ma allo stesso tempo mi dispiaceva che andasse perduto il contesto delle vicende, costituito dagli ideali internazionalisti e dalla generazione di giovani uomini che diedero vita al primo anarchismo. Comincerò quindi raccontando di un gruppo di studenti universitari che a Ferrara fanno notte nei caffè discutendo di donne, di scapigliatura, di una società di liberi e uguali, e poi di nuovo di donne, di scapigliatura, di una società di liberi e uguali…
[…]
Dieci regole
1. Il buon funzionario raccoglie qualunque informazione anche quando non la capisce, contando sul fatto che il senso possa emergere col tempo, dall’accumulo delle informazioni e dei dettagli.
2. Il funzionario difende l’anonimato della sua fonte.
3. La spia non è al servizio di una istituzione ma di un funzionario.
4. Un individuo è un confidente per un ispettore di polizia e un rivoluzionario per tutti gli altri ispettori.
5. Le istituzioni dello Stato tendono ad assicurare l’impunità del confidente.
6. Le singole notizie viaggiano in via gerarchica dal basso verso l’alto. Il capo della polizia, che sta al vertice, mette tutte le notizie assieme, le verifica e le compara.
7. Il confidente migliore è quello che non sa di esserlo.
8. Un apparato, che sa di doversi difendersi da gente che vende notizie, cerca di verificare le informazioni che riceve, mediante controlli incrociati o mediante fonti di altra provenienza.
9. Un buon ispettore di polizia è innanzitutto un buon archivista.
10. La polizia usa le confidenze delle spie per giustificare la propria esistenza.
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Nota. I brani qui presentati sono tratti da: Piero Brunello, Storie di anarchici e spie. Polizia e politica nell’Italia liberale, Donzelli, Roma 2009, rispettivamente pp. IX-XV e p. 131.
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