di Piero Brunello
Ripubblichiamo questo testo, scritto da Piero Brunello nel 1990, con grandissimo piacere e per tanti motivi. Dice tantissimo su «Mestre» alla fine degli anni Ottanta, ma non è così facile trovarlo nelle biblioteche (fate conto, per curiosità, di cercarlo nel sistema bibliotecario del Comune di Venezia), perciò averlo in rete è una comodità. Risale ai primi passi di storiAmestre e – per stile, tono, temi – contiene molto dello spirito e delle discussioni che hanno caratterizzato i primi vent’anni della vita dell’associazione. E poi il «Piano del Capitale» ha funzionato, il compito è stato svolto: gli anni Novanta (e Duemila) sono diventati davvero quelli di «Mestre è bella» e di «Greetings from Mestre». L’ultima ragione per cui presentiamo il testo è la più ovvia: per il piacere di pubblicare, in futuro, l’aggiornamento che Brunello annuncia.
Nota dell’Autore. Questo testo, nato da conversazioni con Bepi Molin, è il discorso tenuto presso il Centro Civico di Carpenedo-Bissuola il 19 aprile 1990 per l’uscita dei primi due volumi di storiAmestre. Non era pensato per la stampa. Fu Bruno Anastasia, presente all’incontro, a ospitarlo nella sezione «C’è dell’ordine in questa follia» della rivista «Oltre il ponte» (VIII, 1990, 31, pp. 147-161). È apparso poi in appendice a Mestre finestre e controfinestre. Canzoni scritte e cantate da Gigio Brunello, Stamperia Cetid, Mestre 1993, pp. 34-41. Qui viene ripubblicato con qualche taglio alla Premessa, troppo legata all’occasione. A distanza di quasi vent’anni, il testo avrebbe bisogno di essere aggiornato, ed è quanto mi riprometto di fare. (p.b., febbraio 2009)
Premessa
I due libri che oggi vengono qui presentati hanno per titolo La città invisibile. Storie di Mestre, a cura di Domenico Canciani, Venezia 1990 e Mestre infedele. Confini comunali in terraferma e rapporti tra Mestre e Venezia, a cura di Piero Brunello, Portogruaro 1990; il primo raccoglie gli Atti di un Convegno promosso dal Movimento di Cooperazione Educativa e da storiAmestre nel marzo 1988, il secondo gli Atti di un Convegno promosso da storiAmestre nel maggio 19891.
Premetto subito che, pur condividendo molte delle cose contenute nei due libri, è sulla loro impostazione che mi trovo in disaccordo. Se è buona regola infatti che i libri, prima di essere scritti, accertino scrupolosamente l’esistenza degli oggetti su cui essi vertono, devo dire che nel caso dei due volumi che stiamo esaminando, questa semplice avvertenza è stata purtroppo trascurata.
Si trattasse di un aspetto marginale, anche il critico più severo avrebbe chiuso un occhio; ma nel nostro caso l’inavvertenza è particolarmente grave perché riguarda l’oggetto centrale che i libri prendono in esame. Mi riferisco a Mestre, la cui esistenza tutti gli autori senza eccezione (anche quelli normalmente attenti e scrupolosi, e nella vita di tutti i giorni sobri ed equilibrati) accettano non solo senza verifica alcuna, ma – quel che è peggio – senza dubbi o almeno senza apparenti incertezze.
Per quanto senta la gravità delle cose che sto per dire attorno alla presunzione dell’esistenza di Mestre, solleverò molti e legittimi dubbi a tale riguardo; e mi sforzerò di illustrare come e in quali fasi storiche una sorta di abbaglio si sia imposto a tutti, non solo alla gente comune, ma agli stessi intellettuali cittadini chiamati a esercitare un’attenta funzione critica.
1. L’orrore del vuoto tra educazione permanente e socializzazione primaria
Cominciamo da una semplice e banale osservazione che tutti senz’altro abbiamo fatto: chiediamoci per quale motivo sempre più frequentemente nei vuoti tra gli edifici che ci circondano vengano eretti monumenti bronzei, fontane, elementi lignei a forma di menir, enormi palle in pietra, colonne e basamenti in cemento armato (preferibilmente nel mezzo di parchi), edicole contenenti fotografie e cartoline, capannoni per la vendita di oggetti i più vari, palchi adibiti a esibizioni canore rifiutate da Venezia eccetera.
L’elenco potrebbe essere lungo, ma già possediamo un paio di preziosi elementi di osservazione, che possiamo esporre in questo modo: 1. siamo attorniati e direi perfino accerchiati dall’orrore del vuoto che porta appunto a riempire qualsiasi interstizio; 2. l’erezione di questo variegato insieme di elementi negli interstizi tra edifici in cemento non ha altro scopo che quello di dare l’illusione che quegli stessi vuoti costituiscono in realtà dei luoghi e degli spazi. Per quanto possa essere spiacevole, confessiamolo a noi stessi: se togliessimo gli elementi che abbiamo prima ricordato – colonne, basamenti, edicole, fontane, palle, menir – cosa vedremmo? vedremmo la realtà per quella che essa è, e cioè dei vuoti (o se si preferisce, degli interstizi, oltretutto di modestissima se non irrisoria dimensione) tra un edificio e un altro: solo questo e niente di più.
Cerchiamo ora di approfondire quest’ultima osservazione, e chiediamoci se ci troviamo dinanzi a un fenomeno nuovo, o se non si tratti invece di un fenomeno di medio-lungo periodo: e nel caso di una risposta positiva, vediamo di stabilire delle prime approssimative periodizzazioni.
Chi ha costruito gli edifici che ci circondano e nei quali viviamo, era senz’altro determinato a non lasciare nessun vuoto in mezzo, e questa constatazione risulta evidente proprio dalla lettura, per quanto frettolosa, dei due volumi che stiamo esaminando. E basterebbe, per rendersene conto, aprire ad esempio il volume La città invisibile a p. 18 e lasciar parlare un capo dell’ufficio tecnico del comune di Venezia per oltre vent’anni, il quale (come viene opportunamente citato da uno degli autori) nel 1963 individuava la bellezza di questo territorio nel fatto di essere «l’incrocio di sette linee ferroviarie, di cinque strade statali, di tre autostrade, alle quali si spera presto di aggiungere la Venezia Monaco», e inoltre nel fatto di possedere «un’estensione di aree si può dire senza limiti perché tutte le barene dalle Tre Palade a Chioggia possono essere utilizzate per sedi di officine industriali».
Ma poiché questo intendimento non si è poi potuto compiere fino in fondo; poiché in altre parole, per quanto si sia fatto, l’orrore del vuoto non si è interamente placato con la costruzione di strade e di manufatti in cemento, e vuoti e interstizi malgrado ogni sforzo continuavano qua e là a esistere, ecco che in questi vuoti si è cominciato a vedere una presenza, e più precisamente la manifestazione stessa di una città denominata Mestre. Se l’orrore del vuoto ha portato dapprima alla soppressione per quanto umanamente possibile degli spazi vuoti, in un secondo momento, vista l’impossibilità di eliminare interamente tali vuoti, ha cominciato a vedere una presenza laddove in realtà si manifesta solo una assenza, o meglio il nulla.
Ma perché un individuo dotato di medie capacità intellettive è tratto in inganno? perché, a mano a mano che vengono costruiti edifici in cemento di vario genere, uno è portato a vedere qualcosa (detta Mestre) negli interstizi vuoti che rimangono casualmente in mezzo? Perché uno, in altre parole, è indotto in perfetta buona fede a credere nell’esistenza di una città chiamata Mestre?
Vedremo che a tale riguardo si scontrano l’interpretazione marxista, l’interpretazione neo-kantiana e quella psicoanalitica freudiana. Ma prima di prenderle separatamente in esame e di dimostrare che queste interpretazioni non sono affatto in contrasto tra di loro ma possono benissimo incontrarsi e fondersi assieme, vale la pena di elencare i diversi modi con i quali una persona è tratta nell’errore di credere nell’esistenza di Mestre.
Il primo modo nel quale si instilla l’illusione consiste nella reiterazione di usi linguistici, e più precisamente nell’uso reiterato di enfatizzazioni e di iperboli. Troviamo infatti una Riviera XX Settembre laddove non v’è traccia né di fiume né di lungofiume, una Piazza Carpenedo per intendere uno slargo stradale, un Parco Ponci dove non c’è un solo filo d’erba, una Piazza Barche dove non si vedono né piazza né tanto meno barche, una Via Torre Belfredo dove non c’è ombra alcuna di torri, un Municipio dove non si riunisce mai consiglio comunale, un Ponte della Campana dove, per quanto si giri lo sguardo, non c’è modo di scorgere nemmeno in lontananza né ponti né fiumi né campane, una Pescheria Vecchia quando non si sa se e dove sia quella Nuova, per non parlare di usi linguistici talmente iperbolici, quale Duomo di San Lorenzo, Corte del Castello o Biblioteca Comunale, che non richiedono ulteriori commenti.
Occorre precisare che questi modi di dire sarebbero prontamente irrisi da qualsiasi adulto dotato di buon senso, soprattutto se proveniente da altre località; e infatti il segreto del loro successo sta nel fatto che tali usi vengono instillati nei bambini in età prescolare e fin dalla più tenera infanzia. «Mamma, dove siamo?» «Siamo al Parco Ponci, Pierino», e dinanzi ai fondati dubbi del bambino, che non è ancora perduto ai guizzi della ragione: «Prova a dire: Parco Ponci, Par-co Pon-ci», fino a che il pargolo sarà un po’ alla volta indotto a credere che a tutti questi nomi corrispondano altrettanti luoghi, e che essi nell’insieme esprimano realmente la manifestazione di una città chiamata Mestre: «Mamma, dove abitiamo noi?» «Lo sai che stiamo a Mestre, Pierino», e un po’ alla volta il bambino, che pure non è mona e non vede né parco né riviera, si abituerà a sopprimere ogni ragionevole dubbio e riuscirà a dire con sicurezza e con sguardo sereno «Parco Ponci» senza pensare a un parco, o «Riviera XX Settembre» senza pensare a un lungofiume, o «Piazza Barche» senza pensare a una piazza (o ancora peggio, come poi vedremo, si abituerà davvero a pensare che lì ci sia realmente un parco, lì realmente una piazza, lì realmente una riviera, e che tutto questo costituisca la città in cui vive). Col tempo divengono nomi normali e ovvi: Parco Ponci, Riviera XX Settembre, Biblioteca di Mestre, Ponte alla Campana.
Fin qui per quanto attiene alla socializzazione primaria. Ma ciò non sarebbe ancora sufficiente se non ci fossero istituzioni che si occupano specificamente dell’età adulta e dell’educazione permanente. Una parte grave di responsabilità ricade innanzitutto nei due giornali Il Gazzettino e La Nuova Venezia, i quali subdolamente dedicano ogni giorno alcune pagine alla cosiddetta «Cronaca di Mestre», spegnendo ogni residuo dubbio e buon senso, e ribadendo in tal modo nelle lettrici e nei lettori una illusione cui viene conferita progressivamente parvenza di realtà.
Se fossero solo questi due giornali a spargere il seme dell’errore con tanta leggerezza, il compito di smascherare la mistificazione sarebbe tutto sommato facile, dal momento che la consapevolezza che tali organi di stampa calpestano quotidianamente la verità è per fortuna piuttosto diffusa nella popolazione. Ma, quel che è più grave, vi sono numerosissime associazioni che fin dal nome e dallo statuto si richiamano espressamente a Mestre. Duole ricordare che tra queste ci sia anche l’associazione che ha promosso la pubblicazione dei due libri che stiamo esaminando, la quale associazione ha scelto in modo perlomeno incauto una denominazione che, proprio per il fatto di risultare ovvia e scontata quante più volte viene pronunciata, contribuisce a perpetuare un equivoco cui sarebbe opportuno porre la parola fine.
Altre associazioni (come quella che vedo con rammarico coinvolta in una delle due pubblicazioni in esame), promuovono addirittura continui corsi di aggiornamento per insegnanti sulla cosiddetta storia di Mestre, astutamente confidando sull’influsso che tali insegnanti avranno a loro volta nella formazione delle giovani menti, facili ad assorbire qualsiasi affermazione venga loro proposta da chi si presenta in veste di educatore.
Incontri per ribadire una credenza, abbiamo detto, ma anche per sopprimere l’insorgere del dubbio: il fatto che i membri di tali associazioni organizzino reiterati incontri, a cosa può essere addebitato se non al bisogno di confermare una fede che essi stessi per primi sentono vacillare? quale altro scopo, in altre parole, si prefiggono riunioni come questa cui oggi partecipiamo, se non ribadire la fede in una entità sulla cui esistenza ciascuno di noi, nel nostro intimo, avverte sempre più di frequente il sussulto e il fremere del dubbio?
2. Falsa coscienza e lotta di classe nel XX secolo: l’interpretazione marxista
Fin qui ci siamo limitati a delineare alcuni modi attraverso i quali un equivoco o, se si preferisce, una menzogna riesce a imporsi presso tutti gli strati – anche i più avvertiti – della popolazione. Detto in termini più rigorosi, ci siamo attenuti ai criteri di uno studio sulla fenomenologia psichica in un contesto metropolitano alle soglie del Duemila. Quello che resta da fare è inserire queste osservazioni fenomenologiche entro una cornice teorica in grado di illuminarle alla luce di una analisi complessiva della realtà.
La prima interpretazione che prenderò in esame è l’interpretazione marxista, la quale – per riassumere – attribuisce la diffusione della credenza nell’esistenza di Mestre a un preciso Piano del Capitale che si impone in un arco cronologico che va dagli inizi del Novecento alla fine del secolo: il quale Piano, come ora dirò, è duplice, nel senso che agisce sia sul piano strutturale che in quello sovrastrutturale, e si articola in tre fasi cronologicamente successive.
In un primo momento dunque, a partire grosso modo dal 1917, il grande padronato che con Porto Marghera dà il via alla costruzione di una delle più imponenti aree industriali d’Europa, si pone il problema di come far affluire manodopera in un territorio fino ad allora praticamente deserto e alla fine, dopo aver preso in considerazione alcune soluzioni in contrasto tra loro (riflesso del temporaneo emergere di conflitti inter-capitalistici) decide di reclutare operai dalle aree rurali contermini, senza contemporaneamente – e questo aspetto si rivelò determinante – senza contemporaneamente dare il via a un serio e coerente piano di trasporti (che però secondo alcuni, dato il livello medio di sviluppo delle forze produttive, sarebbe stato forse prematuro e inattuabile): il che in ogni caso costringeva i lavoratori, gettati sul lastrico da una concomitante e grave crisi economica, ad abbandonare le proprie case per risiedere vicino alla fabbrica. Per parecchi anni la classe operaia, composta di giovani poco qualificati ma altamente combattivi, lottò con coraggio contro questa forma di deportazione, ma col tempo dovette cedere: uno a uno, dapprima in gruppi sparuti e poi sempre più numerosi, i giovani lavoratori, sconfitti, divisi e soprattutto stroncati dalla fatica dei viaggi, si adattarono alla volontà padronale e trovarono casa vicino al luogo di lavoro, dapprima per sé (in genere una camera in affitto) e poi chiamando tutta la famiglia.
Questo piano, che agiva esclusivamente a livello strutturale, non era tuttavia sufficiente a convincere la gente a dormire sotto le ciminiere delle fabbriche, sicché il grande padronato dovette affrontare una battaglia ideologica, che fin dall’inizio fu consapevolmente articolata in tre fasi, le quali avrebbero dovuto convincere per gradi successivi la classe operaia ad accettare le seguenti tre presupposizioni: 1. «Mestre esiste»; 2. «Mestre è la mia città»; 3. «Mestre è bella».
In altre parole fin dall’inizio il Capitale si rese perfettamente conto che il solo motivo economico non avrebbe mai piegato una classe operaia consapevole della propria forza, e che nessun proletario avrebbe mai confessato davanti ai propri bambini di aver accettato la deportazione solo per poter dormire più vicino al luogo del suo sfruttamento e della sua alienazione (mentre, al bambino o alla bambina che affacciandosi alla finestra si poneva i primi angosciati perché, sarebbe stato facile rispondere «questa è Mestre, questa è la tua e la nostra città»).
Il Capitale decise allora di agire, come si è detto, anche a un livello sovrastrutturale, insinuando gradatamente e con successo l’idea che i vuoti tra i palazzoni e i condomini assegnati alla riproduzione della forza lavoro (e sostanzialmente al minimo necessario di ore di sonno) costituissero una città denominata Mestre. Una volta fosse andato a buon fine, questo progetto avrebbe conculcato nei proletari una forma di falsa coscienza, deviandone la giusta lotta verso obiettivi sovrastrutturali; avrebbe in altri termini spostato la loro attenzione dai condomini, dai palazzoni, dalle scuole e dalle fabbriche (cioè dalla realtà) agli interstizi tra gli edifici (e cioè al nulla). Tutti avrebbero visto il vuoto, che non esiste, e si sarebbero dimenticati dell’assetto sociale realmente esistente, avrebbero discusso dello spirito e non della materia: e in particolare i proletari, dimenticando di liberarsi dalle proprie catene, sarebbero divenuti degli astratti cittadini impegnati nella ricerca o nella costruzione di una mitica e comune identità urbana.
Ora, delle tre fasi previste nel Piano del Capitale, la prima (riassumibile nell’assunto «Mestre esiste») va grosso modo dal 1917 a tutti gli anni Sessanta; la seconda fase («Mestre è la mia città») comprende gli anni Settanta e Ottanta; la terza fase («Mestre è bella») costituisce il compito degli anni Novanta e comunque rappresenta il futuro.
Se osserviamo infatti il periodo che va fino alla fine degli anni Sessanta, vediamo che la deportazione di grandi masse di operai in edifici prossimi alle fabbriche si accompagna ai tentativi di vincere la diffusa resistenza all’emigrazione dimostrando l’esistenza di una città, come è testimoniato ad esempio dalla decisione di dare ai nuovi insediamenti costruiti sottovento rispetto alle fabbriche dapprima il curioso nome di «Città Giardino» e successivamente dei nomi che dessero ai proletari (questa volta veneziani) addirittura l’illusione di continuare a trovarsi nella loro città (ed ecco San Marco un po’ ovunque, e poi le varie Corte Todaro, Corte Lunardo, Corte Colombina, Corte Mirandolina, Corte Corallina, Corte Orsetta eccetera).
Verso la fine degli anni Sessanta il compito di istillare la credenza nell’esistenza di Mestre poteva dirsi concluso con successo. Da allora infatti le famiglie si sono talmente abituate a non vedere più gli edifici dove abitano, e a scorgere solo i vuoti tra le costruzioni, che non c’è nemmeno il bisogno di ricordarglielo: perciò i nuovi insediamenti degli anni Settanta e Ottanta non hanno più nomi, ma semplici sigle o insieme incomprensibili di lettere quali Cep, Peep, Cita, Iacp.
Attualmente anche la seconda fase può dirsi conclusa. La consapevolezza che Mestre non solo esista, ma sia anche quella che viene definita «la nostra città» non trova praticamente più opposizione; nascono anzi di continuo gruppi di studio, movimenti e perfino partiti politici che si dedicano alla celebrazione e alla diffusione di questa sorta di religione civica. (Non sempre i celebranti di questo culto laico sono a loro volta dei credenti genuini; talvolta devono soffocare le proprie opinioni e adeguarsi loro malgrado al clima generale che li circonda. Ad esempio quegli stessi che hanno promosso due referendum per staccare Mestre da Venezia al solo scopo di dimostrare che se qualcosa può essere staccato, allora esiste, questi stessi promotori, come leggo nel volume Mestre infedele a p. 125, invitano poi in un loro volantino a votare Sì «per entrare nel Veneto»: ma se Mestre non si trova nel Veneto, dove mai esiste? è chiaro che non esiste ed essi, con questo lapsus, dimostrano di esserne consapevoli. È molto probabile inoltre che qualche sacca di scetticismo si annidi perfino nei gruppi preposti alla celebrazione dell’esistenza di Mestre, come starebbe a indicare il titolo del primo volume che oggi presentiamo, La città invisibile, titolo che potrebbe celare un conflitto sotterraneo e un compromesso tra due gruppi rivali, l’uno dei quali nega l’esistenza della città senza però trovare il coraggio di proclamare pubblicamente la propria incredulità o quanto meno il proprio agnosticismo).
Abbiamo detto che la seconda fase messa in atto dal Grande Capitale è praticamente finita. Di più: allorché Domenico Canciani, nell’Introduzione a La città invisibile, individua oggi il «riconoscersi» degli abitanti in Mestre e nella sua storia (p. 11), egli dimostra chiaramente che siamo al punto di snodo tra la seconda fase e l’inizio della terza, alla fine della quale tutti saranno convinti che Mestre non solo esiste ed è «la nostra città», ma è perfino bella.
Se mi sono dilungato a illustrare l’interpretazione marxista, è perché (come del resto voi sapete) credo che essa sia in grado di spiegare meglio di altre la complessità del sociale. Tuttavia non sarò così dogmatico da ritenere che essa sia esaustiva. Riconosco che altre questioni restano aperte, in particolare le seguenti: se è vero che il Capitale ha tutto l’interesse a inculcare nel proletariato una falsa coscienza, come mai il proletariato stesso, che come abbiamo visto è vigile e combattivo, si lascia così facilmente persuadere ad andare contro i propri interessi di classe? e come mai la fede nell’esistenza di Mestre è fatta propria da tutti, anche dagli strati non operai della popolazione? Su questi punti io credo ci soccorrano le altre due interpretazioni attualmente più accreditate, e cioè l’interpretazione neo-kantiana e quella psicoanalitica, come cercherò brevemente di dimostrare.
3. Rumori e odori urbani: l’interpretazione neo-kantiana
Prima di prendere in esame l’interpretazione neo-kantiana, sarà opportuno richiamare sommariamente gli elementi fondamentali della teoria della conoscenza in Kant, il quale osserva che la conoscenza si ha nell’unione di determinazioni o intuizioni sensibili e di concetti puri o categorie a priori. Le forme empiriche che noi percepiamo (quali rumori, odori, spigoli, intralci o impedimenti fisici eccetera) di per sé non ci direbbero niente se esse non fossero organizzate, e quindi rese intelligibili, da forme a priori che le collocano nello spazio e nel tempo e quindi conferiscono loro un senso. Torniamo ora al nostro tema e ricordiamo quanto si diceva all’inizio, che cioè nessuno di noi vedrebbe gli interstizi se non fossimo stimolati da qualche intuizione o determinazione sensibile (causata da elementi lignei, bronzei o di pietra) che ci costringe a farlo; ma a loro volta queste intuizioni sensibili non sarebbero intelligibili se noi non le organizzassimo attorno a una categoria a priori – ad esempio l’idea di pieno contrapposto a vuoto, o l’idea di Pòlis –, in base alla quale siamo portati ad affermare: esistono luoghi e spazi i quali rappresentano per così dire un pieno – in contrapposizione al vuoto – e contengono una città detta Mestre.
Ora, se la costruzione di elementi lignei, bronzei e di pietra a forma di totem, colonne, sfere o menir, persegue l’obiettivo di rivelare luoghi organizzati attorno all’idea di Pòlis laddove esiste il nulla, ciò significa che la popolazione tende per sua natura ad assopire le intuizioni sensibili e a percepire sempre di meno l’esistente attorno a sé, e deve perciò essere di continuo stimolata da nuove e più forte determinazioni sensibili che possano essere collegate in qualche modo all’idea di Pòlis (con la conseguente classificazione interna di Centro e di Periferia), o meglio di Mestre come Pòlis, con il suo centro e le sue periferie.
Vanno così sorgendo tangenziali ed enormi cavalcavia a pochi passi dalle case, di modo che la popolazione, affacciandosi alla finestra, possa dire: «Questa è una superstrada, quindi questa è una città»; gli odori industriali devono essere abilmente miscelati e mantenuti a un certo livello e anzi incrementati se si vuole che la popolazione ammetta a se stessa: «Questa è una città industriale»; le discariche devono essere molte e ben visibili e continuamente alimentate dalle pubbliche amministrazioni (non solo di giorno, ma anche di notte), affinché si possa dire senza tema di smentita: «Qui c’è una discarica, dunque qui c’è una periferia, mentre lì c’è il centro» (e per analogia: «Se questa è la Biblioteca Comunale, io vivo a Mestre»; «Se non riesco a salire su questo autobus, questa è Mestre» eccetera).
Come si è visto, le categorie che rendono intelligibili le intuizioni sensibili non sono solo quelle newtoniane legate allo spazio e al tempo (come erroneamente riteneva Kant), bensì anche quelle legate all’archetipo di Pòlis. In questo senso possiamo dire che nessun dato fenomenico (nemmeno il fatto di annusare o vedere una discarica o di sbattere in bicicletta contro il pilone di una tangenziale) sarebbe di per sé intelligibile se non fosse immediatamente illuminato da questo archetipo.
Diventa ora più chiaro il motivo di nomi quali «Riviera», «Castello», «Torre», «Piazza», «Parco», che non hanno alcun riferimento reale e che si spiegano solo coll’esistenza di un archetipo di Pòlis (nel nostro caso si direbbe una città medievale su modello di Siena), il quale archetipo richiede appunto che una città abbia le sue Piazze, il suo Duomo, le sue Torri, il suo Castello: e stupisce di non trovare per esempio un «Lungomare» («Lungomare Daniele Manin», perché no?) in un territorio al quale per il resto non manca niente di quello che si suppone debba costituire una città ideale2.
Tutto ciò sta a dimostrare inoltre che Mestre, frutto di un bisogno oscuro e primitivo di dare una forma nota e perciò rassicurante a ciò che viene percepito come esterno e altro da sé, non è niente di più che il prodotto dell’inconscio collettivo. Ma questo punto va ulteriormente chiarito: se è abbastanza comprensibile infatti il peso che giocano determinazioni sensibili – quali barriere fisiche e architettoniche, odori, rumori, colori – nella costruzione dell’idea di Mestre, resta da capire come possa venire unanimemente accettata l’idea stessa che rende intelligibili le determinazioni sensibili. Questo tema ci porta ad affrontare la terza e ultima interpretazione, che è appunto quella psicoanalitica.
4. Nevrosi ossessiva e ambivalenza dei sentimenti: l’interpretazione psicoanalitica
L’interpretazione psicoanalitica, nella versione freudiana, chiarisce un quesito che finora non ha avuto risposta: come mai l’esistenza di Mestre, pur essendo manifestamente infondata, raccoglie una così vasta, anzi totale, adesione di massa? Riprendendo alla lettera gli insegnamenti di Freud, tale scuola di pensiero risponde: 1. che siamo dinanzi a un classico esempio di segreto tribale; 2. che la coazione nevrotica a pensare e a ribadire l’esistenza di Mestre si spiega col fatto che Mestre «esprime due opposti significati: in un senso significa sacro, consacrato, nell’altro, sinistro, pericoloso, proibito, impuro»3.
La caratteristica principale di questa nevrosi ossessiva consiste dunque in una sorta di atteggiamento ambivalente del soggetto verso l’oggetto-Mestre: nel mentre desidera prepotentemente compiere un’azione in qualche modo connessa con Mestre, il soggetto aborre da tale azione e ne prova orrore; è consapevole del divieto imposto dalla ragione, ma desidera inconsciamente e intensamente violarlo; sa che ogni azione connessa con Mestre (e perfino l’idea stessa) è proibita dal buon senso, ma prova contemporaneamente una fortissima attrazione a soddisfare il desiderio proibito; è attratto dalla trasgressione e la teme, ed è perciò diviso tra la paura della tentazione e il piacere di assecondarla.
Tale nevrosi ossessiva, per sua natura contagiosa, si traduce collettivamente in un segreto tribale, da tutti condiviso e da tutti religiosamente rispettato: la popolazione infatti si aspetterebbe chissà quali punizioni (quasi le venisse letteralmente a mancare la Terra sotto i piedi e all’improvviso la Storia sospendesse il suo cammino) nel caso qualcuno osasse svelare il segreto della non-esistenza di Mestre e affermasse pubblicamente la verità che essa conosce e vuole tenere nascosta ai profani.
Questo spiega il motivo di un’usanza apparentemente strana, ma in realtà perfettamente comprensibile, l’usanza cioè dei membri della tribù di usare il termine «Mestre» solo ed esclusivamente quando si rivolgono ai non-iniziati, in particolare quando si rivolgono ai bambini (che devono ancora essere iniziati e perciò devono credere nell’esistenza reale di Mestre) e agli stranieri (che sono tenuti all’oscuro del segreto). Tra gli iniziati invece, i quali sono al corrente del segreto, il termine «Mestre» non viene mai nominato. Mentre infatti, nel rivolgersi ai non-iniziati (bambini e stranieri), i custodi del segreto tribale dicono «Sto a Mestre», quando parlano tra di loro e sono certi di non essere ascoltati dai profani, evitano accuratamente il nome «Mestre» (che, come si è detto, percepiscono come termine interdetto, sacro e impuro allo stesso tempo) e ricorrono alle denominazioni più varie: astenendosi dall’usare il termine proibito, dicono ad esempio «Sto a Favaro», «Sto a Chirignago», «Sto a Catene», «Sto a Ca’ Solaro» eccetera.
Abbiamo detto che le denominazioni cui essi ricorrono per evitare l’uso di «Mestre» sono molto varie; finora ne sono state raccolte almeno 38 e cioè, in ordine alfabetico: Altobello, Aretusa, Asseggiano, Bissuola, Bottenigo, Ca’ Brentelle, Campalto, Carpenedo, Ca’ Sabbioni, Ca’ Solaro, Catene, Cavergnago, Cep, Chirignago, Cipressina, Cita, Dese, Favorita, Gatta, Gazzera, Giustizia, Macallè, Malcontenta, Marghera, Marocco, Peep, Piave, Piraghetto, Quattro Cantoni, San Giuliano, San Giuseppe, San Teodoro, Terraglio, Tessera, Trivignano, Villaggio San Marco, Villaggio Sartori, Zelarino.
Conclusioni
Mi avvio rapidamente alla conclusione del discorso. Spero di aver portato argomenti convincenti. (Ma se aveste ancora qualche dubbio residuo, pensate alla seguente dimostrazione per assurdo: ammettiamo per assurdo che Mestre esista; ma allora perché mai, quando una persona che pure ammette di abitare a Mestre, dice «Vado a Mestre» quando esce di casa? non è questo un residuo linguistico del tempo in cui l’abbaglio doveva ancora imporsi e appariva per quello che effettivamente era?)
Riassumendo quello che ho cercato di illustrare: nella prima interpretazione, quella marxista, Mestre è l’oppio dei popoli, nella seconda, di ispirazione neo-kantiana, Mestre è una sintesi a priori, nella terza, psicoanalitico freudiana, Mestre è un totem e perciò un tabù.
Lungi dall’essere in contrasto tra di loro, come gli studiosi hanno fin qui affrettatamente sostenuto, le tre interpretazioni si sorreggono a vicenda l’un l’altra. Mi auguro che almeno una di queste vi convinca.
Non vorrei comunque aver dato l’impressione di un giudizio totalmente negativo sui due volumi che oggi vengono presentati. Torno a dire che il materiale è ben distribuito, lo stile è vivace e a tratti anche piacevole: nel complesso si leggono volentieri. Se questi libri appartenessero al filone della letteratura d’evasione o dei viaggi fantastici (come le opere che ci parlano di Atlantide, del Cipango o del Catai) non troverei anzi niente da dire, e mi sentirei di consigliarne la lettura perfino ai bambini. Ma quando vogliono contrabbandare per una verità storica quello che, nel migliore dei casi, è il frutto di un inconscio collettivo, è nostro dovere denunciare l’inganno.
Devo confessare che per lungo tempo sono vissuto anch’io nell’errore, e ho cercato anzi di propagarlo e di diffonderlo. Non solo ho partecipato ai due volumi che oggi vengono presentati, ma ho anche concorso nella mia vita alla pubblicazione di un altro libro di analoga intonazione, seppure falsamente circoscritto a questioni relative ad alcune fortificazioni militari4. Con il discorso di oggi ho finalmente l’occasione di liberarmi da un peso che mi era diventato negli anni troppo pesante. Spero che anche voi troviate il coraggio di fare altrettanto.
Vi prego, liberatevi dal segreto che vi opprime, ora che ne avete l’opportunità. Trovate qui due volumi che rappresentano un esempio insuperabile del livello di mistificazione a cui siamo giunti. Smascherate questo gioco, ponete fine alla Grande Menzogna. Evitate che tali opere vadano in mano a gente sprovveduta, risparmiate ad altri l’esperienza dell’errore. Togliete di mezzo questi libri prima che siano diffusi, fate che non venga immesso nelle librerie nemmeno un esemplare. Acquistateli adesso, quando sono in vendita a prezzo intero, prima che gli editori, disposti a tutto pur di spargere il loro veleno, li distribuiscano su bancarelle improvvisate a prezzo ridotto e perfino dimezzato, perché allora le pubblicazioni entreranno in ogni ambiente sociale, anche il meno preparato, e nessuno sa quale sorte il futuro vorrà riservarci. Comperate questi due volumi e comperatene in più copie, fate che siano tolti per sempre dalla circolazione.
Se avessi convinto anche una sola persona a ravvedersi e a seguire il mio consiglio, sentirei di aver raggiunto il mio scopo.
Grazie, cittadine e cittadini di Mestre.
- Autori del volume La città invisibile sono Sergio Barizza, Piero Brunello, Domenico Canciani, Collettivo 150 ore «Bandiera e Moro», Rosalia Di Blasi Burzotta, Gianni Facca, Maura Mosena Zanin, Giovanna Lazzarin, Roberta Pellegrinotti, Chiara Puppini, Giorgio Sarto, Paola Sartori, Maria Teresa Sega, Alessandro Voltolina.
Autori del volume Mestre infedele sono Sergio Barizza, Armando Bonetto, Piero Brunello, Domenico Canciani, Delia Murer, Giorgio Sarto, Paola Sartori, Maria Teresa Sega, Alessandro Voltolina, Gabriele Zanetto. [↩]
- Oltre all’influsso esercitato dall’archetipo di Pòlis, probabilmente gioca anche un ruolo la geometria euclidea, e cioè l’idea che se esiste un punto per il quale passa una retta, ne esiste necessariamente anche un altro: il quale postulato, una volta banalizzato dalla scolarizzazione di massa, si traduce nell’affermazione che se esiste una cosa ne consegue che deve necessariamente esistere anche un’altra, e che perciò se esiste Siena o se è esistita un tempo Venezia, deve necessariamente esistere anche Mestre. Ma questo apre il problema, da lungo tempo dibattuto, di una seria e radicale riforma della didattica della geometria, o almeno dell’introduzione a scuola della geometria non-euclidea. [↩]
- S. Freud, Il tabù e l’ambivalenza dei sentimenti, in Id., Totem e tabù, a cura di F. Maineri, Roma 1970, p. 80. [↩]
- N. Anoè, P. Brunello, G. Facca, C. Zanlorenzi, I forti del campo trincerato di Mestre: storia, ambiente, prospettive di riuso, a cura di P. Brunello, Libreria Utopia Due, Venezia 1988. [↩]