di Tommaso Saggiorato
Il 2 settembre 2008, Tommaso Saggiorato fa una visita alla sua amica Sara, che lavora in una cooperativa sociale a cui è affidata la gestione del Centro Boa. Il Centro Boa è una struttura d’accoglienza per richiedenti asilo politico, organizzata nell’area dell’ex forte Rossarol (Tessera, Venezia); è creata nel quadro del «Progetto Fontego-Comune di Venezia», in un contesto ora regolato dalla legge Bossi-Fini del 2002. «Centro… “Boa”?». La pallanuoto l’abbiamo esclusa subito. Tommaso, a parte, ci ha spiegato che il nome del centro è ben concreto, è quella boa là, letterale: «la boa galleggia nel mare aperto, è visibile e ci si può appigliare per non andare a fondo nel caso ci manchino le forze per continuare a nuotare verso la costa, ammesso che si veda». Pur trovandoci un gusto un po’ amaro di mari agitati e sinistri, condividiamo: comunque meglio una boa, intanto, che finire affogati o sparati. E poi abbiamo immaginato serpenti tropicali nei pochi campi rimasti intorno a Mestre.
Percorsi
Le indicazioni stradali di Sara sono chiare: dall’aeroporto Marco Polo mi dirigo verso Tessera, lungo la Triestina; al bivio di Tessera invece di deviare per via Orlanda proseguo qualche centinaio di metri lungo la Triestina finché non trovo una laterale non asfaltata: via Pezzana. Imbocco la via sterrata costeggiata da due lunghe file d’alberi, proseguo sempre dritto fino alla curva e, superato un ponticello, trovo l’entrata all’area dell’ex forte Rossarol.
Nove del mattino: sono arrivato come d’accordo. Non sono preparato, non so cosa mi aspetta. Oltrepasso il cancello d’ingresso, che non dev’essere mai stato chiuso viste le erbacce che vi crescono attorno, e suona il telefono: è Sara, che ha una certa fretta. Ho appena il tempo di parcheggiare e di essere spinto dentro un furgone. Alla guida c’è Cinzia, dietro ci sono quattro passeggeri, ospiti da poco; due vengono dalla Somalia e due dall’Iraq. Non parlano fra loro, il silenzio è rotto da Cinzia che distribuisce loro delle fotocopie con la mappa della strada che conduce al Centro di Igiene e Sanità Pubblica di Mestre. Sulla mappa è evidenziato il percorso dell’autobus 15, con il furgone percorriamo lo stesso tracciato perché devono imparare la strada, riconoscere i luoghi in cui dovranno tornare da soli e sapere a quale fermata smontare. Per tre di loro è la prima volta.
Cinzia non conosce l’inglese, si esprime esclusivamente in italiano nonostante io sia il solo nel furgone a capirlo. Lei ripete fino alla nausea le stesse cose, utilizza molto il linguaggio gestuale, pretende da loro delle risposte, cenni di aver capito. Le chiedo se non sia meglio parlar loro in inglese, ma lei mi risponde che non è opportuno per gli ospiti; mi fa capire che la lingua non è il principale mezzo di comunicazione, prevalgono i gesti, le espressioni, i toni della voce. Se c’è bisogno che un ospite capisca alla perfezione, si ricorre a una mediazione linguistica.
Salute
All’interno del centro d’accoglienza, Cinzia svolge il ruolo di referente sanitaria, cioè media tra le strutture medico-ospedaliere e tutti i richiedenti asilo che, in possesso di permesso di soggiorno, devono iscriversi al servizio sanitario nazionale (con diritto al medico di base e a esenzione da ticket per prestazioni mediche e spese farmaceutiche).
«Nel tempo – mi dice Cinzia – sono riuscita a stringere dei buoni rapporti con i medici, anche grazie alla mia lunga esperienza sul campo; prima di arrivare qui avevo lavorato più di quattro anni nei campi nomadi di Zelarino e San Giuliano, che poi sono stati chiusi. In quel periodo assistevo i bambini, li iscrivevo e accompagnavo a scuola; sia loro che le mamme avevano continuo bisogno d’assistenza negli ospedali e nei consultori».
Poi mi spiega i cambiamenti in atto: «Prima della nuova legge1, la permanenza dei richiedenti asilo nel Centro Boa era più lunga e c’erano più occasioni d’incontro, di scambio reciproco, di semplice stare assieme. Ora il dialogo è più difficile, la scadenza del permesso di soggiorno è subito imminente, la pressione è maggiore perché ci sono tante pratiche da svolgere, a partire da quelle sanitarie».
In sostanza, il suo compito è quello di compilare e aggiornare le anamnesi che in ogni occasione daranno modo al medico di turno di poter accertare la storia clinica del paziente, senza ogni volta incappare in ostacoli linguistici e culturali.
Cinzia mi dice che non tutti i nuovi arrivati sono abituati a essere visitati da donne; nel caso della visita dermatologica, obbligatoria per tutti, la dottoressa fa spogliare integralmente i pazienti, perciò, alcuni giorni prima si dà loro la possibilità di scegliere d’essere visitati da un uomo.
Arrivati al Centro d’Igiene Pubblica vedo Cinzia in azione: affianca i dottori, prende nota sulla sua agenda di tutte le visite che vengono fatte agli ospiti del centro, comunica loro le date dei prossimi richiami medici, controlla che tutti ci vadano e si arrabbia quando qualcuno non segue le prescrizioni mediche, come talvolta accade – oggi, per esempio, un ragazzo somalo non ha potuto fare i vaccini e i test perché non aveva assunto i farmaci antiscabbia.
Cooperative al forte
Noi rientriamo al Centro Boa, lasciando due ragazzi a Mestre. Lungo la strada sterrata, deserta al mio arrivo, ora c’è traffico: uomini che vanno e vengono, qualcuno lo carichiamo in furgone per evitargli l’ultimo tratto a piedi, che non è poco visto che solo via Pezzana sarà lunga quasi un chilometro e mezzo. Smontiamo tutti davanti agli uffici del Centro Boa che, quando ero arrivato, non avevo avuto modo di vedere.
Negli uffici incontro Federico, che si occupa della parte amministrativa e dell’aggiornamento della banca dati online in cui sono segnati gli arrivi, il giorno del rilascio del permesso di soggiorno con relativa data di scadenza e lo stato della domanda di protezione internazionale; quindi Stefano, il cui ruolo è un po’ particolare perchè si occupa di preparare con gli ospiti il curriculum e di dare loro indicazioni per l’orientamento al lavoro.
Gli operatori mi fanno un quadro dell’organizzazione. L’area dell’ex forte è occupata in parte da due comunità di recupero gestite dalla Coop. Unione, mentre l’area dell’accoglienza è gestita dalla Coop. Co.Ge.S., per cui lavorano Sara, Cinzia, Federico e Stefano. È quest’ultima a far funzionare il Centro Boa2 e anche altre quattro strutture presenti nella stessa area ma separate a livello organizzativo. I quattro operatori del Centro Boa gestiscono 51 posti per uomini richiedenti asilo; vi sono altre strutture che si occupano di minori richiedenti asilo (24 posti), di minori stranieri non accompagnati (12 posti); c’è infine, una piccola comunità educativa per minori non accompagnati (10 posti).
L’ex forte Rossarol si trova al centro di un’area che puoi girare in circa dieci minuti, molto verde e ombreggiata dagli altissimi alberi che la isolano ancora di più dai campi che si trovano tutt’attorno.
Imboccato l’ingresso dell’area, la prima cosa che si incontra è Villa Soranzo; si tratta di un viale lungo il quale si trovano dei vecchi e bassi caseggiati di pietra, un tempo depositi del forte, ora trasformati in monolocali. Se si svolta subito a destra ci si dirige verso il vero e proprio edificio del forte, inaccessibile, che è circondato dalle strutture d’accoglienza per i rifugiati. Camminando in senso antiorario si incontrano per prima cosa gli uffici del Centro Boa: una riga di prefabbricati di legno, tante stanze una accanto all’altra, che non comunicano tra loro – l’unica porta d’ingresso si apre sul ballatoio esterno, coperto da una tettoia. Proseguendo, non distante dagli uffici, si incontrano le casette che ospitano i richiedenti protezione internazionale, nelle quali sono state ricavate numerose stanze a due posti con camera e bagno autonomo. Proseguendo sul sentiero si arriva alla mensa dove pranzano e cenano tutti gli ospiti delle diverse strutture, però a orari differenti. Noto subito che da lì si vedono degli altri caseggiati, mi sembra di cemento armato: sono quelli che ospitano i minori stranieri. Oltre a queste strutture, che ho potuto vedere solo di sfuggita, si finisce il giro del forte costeggiando una serra abbandonata, per poi ritrovarsi di nuovo all’ingresso.
Scuola e schede
A fianco dei due uffici c’è una stanzetta quasi del tutto occupata da un tavolo, attorno al quale sono seduti sei ragazzi di diverse nazionalità, non saprei dire quali. È in corso una lezione d’italiano, stanno imparando le frasi di presentazione di sé. Io mi ero messo sulla soglia dell’aula per osservare, quando uno dei ragazzi mi ha chiesto in italiano quanti anni avevo e come mi chiamavo, coinvolgendomi inaspettatamente.
Lucia, l’insegnante, più tardi mi spiegherà che gli ospiti del centro d’accoglienza seguono obbligatoriamente un corso di quaranta ore di lingua italiana. Quando arrivano sostengono un colloquio dove indicano il loro grado di alfabetizzazione (occidentale). Sulla base delle risposte, vengono formate piccole classi di persone che a turno seguono due ore di lezione al giorno.
Il colloquio iniziale si fa sulla base di una scheda, che prevede anche domande sulla nazionalità, sulle lingue parlate e su tutto ciò che può aiutare a ricostruire un curriculum vitae. L’ultima domanda è: «Che progetti hai per il futuro?»; nelle schede che Lucia mi ha mostrato, segue sempre una riga vuota.
Il questionario finisce nella scheda personale di ogni ospite presente al centro, insieme alle fotocopie dei documenti (permesso di soggiorno, codice fiscale, tessera sanitaria), le anamnesi aggiornate, le convocazioni in questura e le carte prodotte dopo l’arrivo in Italia nei Centri d’Identificazione (CDI) e successivamente nei Centri d’Accoglienza Richiedenti Asilo (CARA); qui vengono conservati anche i documenti che certificano tutti gli ulteriori corsi di formazione professionale o di lingua italiana che hanno sostenuto nel loro periodo di soggiorno al centro.
Pranzo
La mensa non è molto affollata. Sara mi fa notare che siamo in periodo di Ramadan. All’interno della mensa c’è un ragazzo addetto a segnare con una croce tutti quelli che pranzano. La gestione della cucina infatti è un affare un po’ delicato, essendo l’unico spazio comune in cui si ritrovano tutti gli ospiti del Centro. I cuochi cucinano per poco più di cinquanta persone, facendo molta attenzione che nessuno prenda una doppia razione.
Fino a quel momento avevo visto poche persone aggirarsi nei pressi degli uffici, a parte la classe che stava svolgendo lezione. Solo al momento del pranzo ho modo di vedere gli ospiti, sono schivi, non sono interessati a rendere la tavola un momento di socialità: più di uno si presenta chiedendo dei piatti di cibo anche per dei compagni o dei vicini di stanza. Evidentemente non hanno intenzione di fermarsi. Gli operatori stanno seduti a una tavolata, mentre il resto delle persone si siede in ordine sparso ad altri tavoli. Il pranzo non dura molto, non più di venti minuti, e gli operatori sono gli ultimi ad alzarsi mentre già due volontari hanno iniziato a pulire sala da pranzo e cucina.
Vita da campo
Dopo mangiato, Sara mi fa da guida; prima le case degli ospiti: sono indipendenti, non molto grandi ma accoglienti, non vi sono spazi comuni che non siano la mensa o il prato esterno dove è stato ricavato un piccolo campo da calcio. Le porte sono aperte: basta bussare per essere accolti, spesso gli operatori scambiano due chiacchiere, chiedono come va, parlano del più e del meno.
Non vi sono particolari orari da rispettare, a parte quando si tratta di mangiare o di presentarsi presso qualche ufficio per le pratiche amministrative o mediche, c’è libertà di entrare e uscire dal centro d’accoglienza a qualsiasi ora, e questo vale per chiunque, non solo per gli ospiti del centro; i visitatori diurni sono soprattutto amici di qualcuno degli ospiti, in qualche caso sono tirocinanti di scuole o servizi sociali o ricercatori sul campo.
«Questo non vuol dire che non ci siano delle regole da rispettare – mi dice Sara – e non sempre è facile, sorgono spesso problemi anche banali, che vanno risolti per facilitare la convivenza. L’accoglienza vuole permettere ai nuovi arrivati un veloce inserimento nel centro e per questo vengono coinvolte anche le persone che già vi risiedono. Le reazioni all’arrivo sono le più varie. È accaduto che un nuovo ospite congolese, che non si immaginava come fosse il centro, avesse paura di dormire in quello che lui chiamava bush, cioè nelle casette di legno circondate da alberi e campi, perché secondo lui erano pericolose, infestate da animali e serpenti».
Inoltre, come ci sono casi di persone che vogliono andare via, ci sono anche, in certi periodi, persone che si presentano autonomamente al Centro Boa chiedendo ospitalità. In questi casi gli operatori non possono accoglierli.
Le stanze sono controllate periodicamente, valutando anche lo stato di pulizia; la gestione di questo aspetto è affidata agli ospiti. Ogni mese ciascuno riceve 90 euro e l’abbonamento dell’autobus; inoltre vengono forniti dentifrici, spazzolini, carta igienica, detersivo per il bucato (ci sono tre lavatrici comuni), saponi, ecc. Una volta che lasciano definitivamente il centro, ricevono un contributo all’uscita, che ci siano stati pochi giorni o molti mesi.
Internet non è disponibile nel centro d’accoglienza, ma è possibile utilizzare gli accessi dalla biblioteca di Favaro.
«Qui al Centro Boa – dice Sara – oltre agli ospiti alloggiati nelle casette ci sono i cosiddetti “vulnerabili”. Al momento sono cinque e sono alloggiati vicino agli uffici. Sono fragili, hanno bisogno d’assistenza sanitaria o psicologica, la loro permanenza segue percorsi diversi dagli altri, poiché hanno subito traumi che hanno lasciato ferite non ancora rimarginate».
«Operatori» e «servizi»
«Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) inaugurato dalla Legge Bossi-Fini – mi spiega Sara – prevede una collaborazione tra Stato ed enti locali per l’accoglienza di richiedenti, rifugiati e beneficiari di protezione umanitaria. Il servizio centrale coordina la rete dei centri d’accoglienza, mentre questi sono a loro volta gestiti dagli enti territoriali in collaborazione con gli enti gestori. Le Prefetture si mettono in contatto con i Comuni per verificare la disponibilità di posti per accogliere i richiedenti asilo, e si incaricano di finanziare i viaggi per il trasferimento».
«Quello che noi operatori diamo – conclude Sara – sono degli strumenti che li guidino in questo paese straniero: hanno bisogno di una bussola con delle coordinate che sappiano leggere, nulla di più».
«Immagini» e «ritmi»
Il centro è tagliato fuori dal resto del mondo, gli ospiti vi trovano un tetto, un letto per dormire, del cibo garantito; questo però è transitorio, non è destinato a durare per molto tempo, sei mesi o poco più. Quello che bisogna evitare – mi fanno capire – è di proiettare un’immagine distorta del mondo esterno, un’eccessiva protezione sarebbe dannosa, soprattutto quando all’esterno non si ha una rete di relazioni entro cui inserirsi.
Da quando il periodo di permanenza è diminuito da un anno a sei mesi in seguito all’attuazione di una direttiva europea nel 2005 le cose erano diverse. Sara mi dice: «Il potersi finalmente fermare a riposare le membra e la mente per radunare le energie, e gradualmente prepararsi agli eventi futuri era più semplice se ti si prospettava un anno d’attesa. Ma non tutti reagivano al periodo di transito in maniera positiva: c’era chi arrivava parlando magari un buon italiano e gradualmente finiva per perderlo, abbandonando anche la cura di sé, senza rispondere agli stimoli degli operatori.
Ora le cose sono notevolmente cambiate sia per gli operatori che per i richiedenti asilo: il tempo a disposizione è ristretto, i ritmi di lavoro sono più intensi. Quando arrivano al centro quello che vogliono sono i documenti, altro non gli interessa».
Arrivare non basta
Non tutti arrivano con le barche come ci mostrano in televisione. C’è chi arriva in aereo. Anche l’aeroporto di Malpensa è una frontiera da attraversare per molti rifugiati, è anch’esso una specie di Lampedusa.
Il permesso di soggiorno è della durata di sei mesi, suddivisi in due permessi di tre mesi. Quando scadono i sei mesi senza che la commissione incaricata3 si sia ancora espressa in merito alla domanda di asilo, la domanda di protezione internazionale viene estesa al lavoro per altri sei mesi – senza essere commutata in permesso per lavoro –, permettendo così al richiedente protezione di poter iscriversi alle liste di collocamento e di poter partecipare a dei corsi di formazione. Per evitare che il motivo umanitario della migrazione si confonda con quello economico è impedito categoricamente a tutti i facenti richiesta d’asilo di lavorare nei primi sei mesi che trascorrono al centro. Gli operatori comunque cercano di attivarli, magari attraverso delle prestazioni lavorative all’interno del campo come per esempio le opere di giardinaggio o potatura degli alberi, con una paga («simbolica») di due euro all’ora.
Alcuni, all’arrivo in Italia vengono registrati come «dublino», dal nome della Convenzione di Dublino. Quest’accordo prevede che il primo paese europeo attraversato dal richiedente asilo sia quello a cui spetta l’esame della richiesta.
Nell’ultimo periodo Sara ha visto molti «dublino» rispediti in Grecia – che le inchieste avevano accertato essere primo paese di transito. Sara mi parla della condizione di estrema gravità e della mancanza di tutela dei diritti dei richiedenti asilo in Grecia: centri affollatissimi e con condizioni igieniche drammatiche; baracche ai margini di Patrasso abitate da persone in attesa del riconoscimento della protezione internazionale, e dove nessun cittadino iracheno o afgano in questi anni ha visto riconosciuta la propria domanda. Nonostante le denunce dell’ACNUR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) e la risoluzione del Parlamento Europeo, l’Italia continua a espellere immigrati verso la Grecia. La polizia di frontiera accompagna i respinti fino all’imbarco dei traghetti che partono dal Tronchetto. Arrivati a Patrasso ritentano la sorte e provano a tornare indietro, arrivando a volte già morti, come è successo anche quest’estate.
«Quando un richiedente protezione internazionale viene respinto dall’Italia la questura procede fin troppo speditamente dal punto di vista amministrativo – dice Sara – perché, invece di notificare il respingimento, si limita a convocare genericamente nei suoi uffici l’interessato, che una volta lì si vedrà consegnare il foglio di via, senza nessun preavviso, con l’immediato accompagnamento alla frontiera».
I «dublino» non sono assistiti dal Comune di Venezia dal punto di vista legale; spesso si recano a Roma per fare il ricorso, che in molti casi va bene, e si devono arrangiare da tutti i punti vista (per il viaggio, per l’alloggio, ecc.).
Nessuno in giro, noi andiamo
È tardo pomeriggio, il centro Boa è silenzioso, non si vede nessuno nei dintorni. Mi chiedo dove siano gli ospiti, ormai gli operatori stanno andando via tutti e anche Sara sta per tornare a casa. Mi chiedo se ho veramente capito qualcosa di questo posto. Penso di no. Sono stato una specie di intruso. L’unico ospite con cui ho avuto contatto è stato un ragazzo congolese. Nel pomeriggio mi aveva detto: «Studi storia? Allora non puoi rimanere un giorno soltanto; per capire veramente questo posto devi fermarti una settimana. Devi dormire qui, vedere il centro e i suoi ospiti anche in assenza degli operatori».
Ringrazio Sara e Cinzia per la disponibilità e la pazienza che hanno avuto nei miei confronti. Grazie ancora. (t.s.)
1 La 189 approvata il 30 luglio 2002 (la cosiddetta «Bossi-Fini»), entrata in vigore nel settembre 2002, pienamente attuata nell’aprile 2005, a seguito del Regolamento attuativo del dicembre 2004.
2 Il Progetto Fontego e il Progetto Fontego Categorie più Vulnerabili del Comune di Venezia fanno parte del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, previsto dalla legge 189 del 2002 («Bossi-Fini») e attivato dal ministero dell’Interno in collaborazione con l’Associazione nazionale dei comuni d’Italia (ANCI). I due progetti locali, finanziati dal Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo, sono destinati a un numero complessivo di novanta beneficiari: uomini, donne, bambini provenienti da molte regioni e paesi del mondo, richiedenti asilo, rifugiati o destinatari di protezione umanitaria.
3 Sono le «Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale» a decidere in merito alla domanda di protezione. Sono composte da: un funzionario di carriera prefettizia, con funzioni di presidente; un funzionario della Polizia di Stato; un rappresentante di un ente territoriale designato dalla Conferenza Stato città e autonomie locali; da un rappresentante dell’ACNUR (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, noto anche sotto la sigla inglese: UNHCR).
Gli esiti della domanda possono essere di quattro tipi: 1) lo status di rifugiato politico, quello al quale tutti ambiscono, che viene riconosciuto per persecuzioni legate alla razza, religione, nazionalità, appartenenza a un gruppo sociale o politico; vale cinque anni e permette il ricongiungimento familiare, il diritto al lavoro e all’impiego pubblico, l’assistenza sanitaria e la libera circolazione; 2) lo status di protezione sussidiaria, che vale tre anni; introdotto da poco più di un anno, viene concesso qualora si presentino gravi rischi alla persona nel caso rientrasse nel proprio paese e concede diritti pari o quasi a quello del rifugiato politico; 3) nei casi in cui non viene accolta la domanda di protezione internazionale, ma si ritiene che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario, viene rilasciato un permesso di soggiorno per motivi umanitari, della durata di un anno (Sara mi fa notare che nonostante le nuove normative permettano la commutazione di questo permesso di soggiorno in protezione sussidiaria, la questura di Venezia continua a tramutarlo in permesso per lavoro); 4) infine la domanda può essere respinta e ne consegue un decreto di espulsione; in questo caso bisogna recarsi a Roma per fare il ricorso che sospende l’efficacia del provvedimento.
Per approfondire la legislazione vedi: www.meltingpot.org e www.unhcr.it.