di Claudio Pasqual
I primi giorni del giugno 2008, l’avvio, da parte del Comune di Venezia, della costruzione di un nuovo insediamento residenziale attrezzato a Mestre, in via Vallenari, destinato a un gruppo di sinti, abitanti da decenni in quella zona, ha provocato forti polemiche e scontri. StoriAmestre ha preso posizione con un comunicato stampa diramato il 6 giugno; tra le manifestazioni che sono seguite, ecco una cronaca di quella che ha avuto luogo l’11 giugno 2008 in piazza Ferretto.
Mercoledì 11 giugno 2008, alle 18 in piazza Ferretto comincia la manifestazione di solidarietà con i sinti di via Vallenari e a sostegno della decisione del sindaco Cacciari e della sua giunta di procedere alla costruzione di un nuovo campo per quel gruppo di persone. La realizzazione di un nuovo campo attrezzato di casette prefabbricate e servizi, al posto di quello esistente ora in condizioni indecorose, sull’altro lato della via, ha scatenato l’opposizione di un comitato di cittadini e l’intervento della Lega Nord, che hanno fisicamente impedito l’inizio dei lavori bloccando l’accesso al cantiere. Risibili discorsi sull’integrazione si sono immediatamente rivelati il maldestro travestimento di meno nobili preoccupazioni «proprietarie» – il timore di svalutazioni immobiliari – e del razzismo da cui ampia parte della nostra società sembra ammorbata e che molti concittadini, nelle lettere ai quotidiani per esempio, non si sono minimamente preoccupati di mascherare.
C’è voluto qualche giorno ma poi la reazione c’è stata. Non era scontato. è partita la mobilitazione delle forze antirazziste con appelli pubblici e dichiarazioni di sostegno al Comune da parte di varie organizzazioni, fra le quali storiAmestre, e con il lancio di questa manifestazione, alla quale ha aderito anche la nostra associazione.
Arrivo in piazza con mia figlia verso le cinque e mezza. è presto e ovviamente non c’è quasi nessuno (intendo di manifestanti, perché per il resto c’è il solito via vai di un qualsiasi giorno feriale), solamente i tecnici e i musicisti che stanno sistemando gli strumenti sul basso palco tra la fontana di Viani e il palazzo Da Re. Per ingannare il tempo guardiamo le vetrine, entriamo e usciamo da un paio di negozi. Alle sei di gente se ne vede ancora pochissima e mi prende un poco di inquietudine. Ripenso alle manifestazioni semideserte dell’ultima campagna elettorale, ma quello era un fatto prevedibile e previsto, la disaffezione dei cittadini verso la politica cosa risaputa e metabolizzata. Adesso però la faccenda è ben diversa e più grave. C’è un episodio di razzismo al quale opporsi, in un momento in cui un’ondata xenofoba percorre il Paese ed è in crisi l’idea stessa di una società della convivenza e dei diritti.
Ma con mio grande sollievo la gente arriva, senza quasi che me ne accorga, forse per via che l’emozione mi confonde; arriva come alla chetichella, come se ognuno fosse rimasto sotto i portici in attesa, per muoversi, timido, incerto, di veder muovere gli altri. Gli unici che si fanno notare, perché si presentano in gruppo scendendo dal Ponte delle Erbe, sono i ragazzi, qualche decina, dei centri sociali. Portano un lungo striscione bianco con la scritta «Contro il razzismo. Fuori la Lega dalla nostra città», che sarà posizionato davanti al palco, e sventolano bandiere di San Marco – su una il leone alato indossa il passamontagna –, forse, non so, come gesto simbolico in polemica con la Lega. Lo spazio così si riempie e alla fine saremo in tanti, forse 1.500, che è un buon numero di questi tempi.
Si sta quasi stretti davanti al palco, le persone si incontrano, si riconoscono, si salutano scambiandosi abbracci e baci. Anch’io trovo qualcuno, un amico di storiAmestre, cerco con gli occhi altri dell’associazione ma senza risultato, impossibile scorgersi nella folla (ma nei giorni seguenti scoprirò che c’erano altri compagni). Un paio di volte almeno sento ripetere da persone diverse, miei casuali vicini, l’identico commento: «siamo sempre noi, sempre le solite facce». è gente pressappoco con i miei anni a esprimersi in questo modo e quasi certamente non è, questo ritornello, una coincidenza: dev’essere questo il sentimento prevalente. Però si sbagliano, ci sono tanti giovani e giovanissimi fra noi, l’età dei nostri figli. Ciò è confortante, nella staffetta tra le generazioni il testimone non è caduto, mani nuove che speriamo vigorose lo hanno raccolto.
L’atmosfera d’altronde è tutt’altro che depressa o nostalgica, il clima è sereno, però negli sguardi e nei gesti, persino nella postura dei corpi, avverti una tensione che accomuna, la consapevolezza della gravità del momento, del significato di questa giornata, del valore di una battaglia che travalica la dimensione locale. Pochissimi, quasi invisibili cartelli e bandiere, non si sentirà alcuno slogan ma la determinazione dei presenti la si respira nell’aria, la si avverte quasi sulla pelle. Come si sarebbe detto un tempo, insomma, una manifestazione combattiva.
Finalmente si comincia, dopo qualche assaggio delle due orchestrine, i Nosse Belenghe e i Muzirkus, che eseguono musiche balcaniche e jazz-klezmer e faranno da contrappunto sonoro fra un intervento e l’altro – peccato che si senta pochissimo, perché l’amplificazione è troppo debole. Una donna – so di conoscerla, ma mi sfugge il nome – introduce la manifestazione, ne illustra l’antefatto e le ragioni, preannuncia l’arrivo del sindaco, infine presenta il primo oratore. è don Dino Pistolato della Caritas di Venezia, che spiega un foglietto e legge un breve testo scritto. Invita a scacciare dalla propria mente la paura e chiama a solidarietà e rispetto, ricordando come tutti apparteniamo alla stessa famiglia umana. In realtà seguo il discorso per metà. Mia figlia undicenne all’orario convenuto non ritorna dalla piscina dove l’avevo accompagnata prima che iniziasse la manifestazione. Un po’ preoccupato le vado incontro, la incrocio quasi subito in galleria Barcella ma così perdo anche l’inizio dell’intervento di Amos Luzzatto. Concittadino nostro, già presidente dell’Unione delle comunità ebraiche in Italia, quest’oggi a Mestre parla a nome della Fondazione Primo Levi. Riassumo integrando con i resoconti della manifestazione usciti il giorno dopo sulla stampa locale. Fatti del genere non sono nuovi, Luzzatto richiama l’analogia tra la vicenda del campo sinti e gli avvenimenti di un tragico passato; addita a esempio Primo Levi, che dopo Auschwitz spese l’intera esistenza a combattere il ritorno del razzismo; osserva che un paese che si lascia andare a pulsioni xenofobe e discriminatorie soffre di un grave problema di identità; annuncia la costituzione anche a Venezia di un comitato per il diritto di voto amministrativo per i migranti, come passo importante in un percorso di convivenza e integrazione.
Intanto il sindaco ancora non si vede ma è sicuro che verrà, appena terminata la presentazione di un’iniziativa del Comune al centro Candiani. Siamo arrivati al momento più significativo della giornata: si manifesta e si parla per i sinti ma in realtà con e per bocca dei sinti stessi, perché una loro piccola delegazione è venuta in piazza. Avevo riconosciuto le donne, per le vesti e le acconciature, ma gli uomini no; quelli che salgono sul palco sono dei signori di mezza età, Paolo Hudorivich e Armando Renard, del tutto indistinguibili per aspetto e abbigliamento da chiunque altro. Ringraziano sentitamente il sindaco per l’impegno profuso a favore della loro comunità; a quanti obiettano sulla loro «estraneità» Udorovich risponde che lui le leggi italiane le conosce e le rispetta, da cittadino di questa Repubblica, cui ha giurato fedeltà da bersagliere a Pordenone; soprattutto mostrano stupore e amarezza. Qualcuno dice che sarà un ghetto, «ma sono quarant’anni che siamo in via Vallenari e si accorgono di come viviamo solo adesso?»; e ancora, Hudorovich, «provo vergogna e dispiacere perché gente che ci conosceva ci ha tradito» e si riferisce a tutti quelli che «non si sono mai preoccupati […], non hanno mai voluto parlare con noi, e solo ora quando […] abbiamo la possibilità di una vita migliore, si accorgono della nostra presenza e attaccano con violenza noi e chi ci sta aiutando».
Ecco che si presenta Cacciari, in completo scuro, spalle forse un po’ più curve del solito. Sono curioso di sentire cosa dirà. La manifestazione è stata indetta anche a sostegno del Comune ma al sindaco non si può concedere una linea di credito sulla fiducia. Non dimentico che questa amministrazione ha fatto da apripista nei provvedimenti anti-ambulanti abusivi, leggi immigrati venditori di borsette, che reprime con solerzia degna di miglior causa. Quando gli strumenti tacciono, lui attacca, immobile davanti al microfono, al centro del palco. Ripercorre la vicenda amministrativa dal principio: la necessità di chiudere il vecchio «campo nomadi» e di trovare una nuova sistemazione per i suoi abitanti, per più ragioni, sociali, igienico-sanitarie, urbanistiche; la scelta di mantenere la comunità nell’area di via Vallenari, in un sito vicino all’attuale; la decisione del comune di portare a termine autonomamente il progetto del villaggio sinti, dopo il ritiro del finanziamento statale. Quando passa a parlare del comitato dei cittadini e del centrodestra locale, la voce si alza di tono, prima impercettibilmente poi in modo sempre più forte, per diventare quasi gridata, fin quasi a momenti a incrinarsi, a spezzarsi. «Malafede»: di questo esplicitamente, pubblicamente, senza eufemismi, Cacciari accusa i membri del comitato. è il valore di case e terreni, il timore dei proprietari che si deprezzino il vero motivo della loro opposizione. Ma il villaggio è abbastanza lontano dalle abitazioni e sulla sicurezza e il rispetto delle regole veglieranno il comune e, com’è loro compito, polizia e carabinieri.
La carica emotiva, lo slancio passionale del sindaco si trasmettono alla piazza; il linguaggio diretto, lo stile icastico – «fantasmagoriche balle», che gli danno «un fastidio fisico», i discorsi del comitato sull’integrazione – fanno presa sui presenti. Accade quanto non vedevo da tempo: non una folla di astanti con l’animo lontano e la mente distratta ma tante persone partecipi, sintonizzate sulla stessa linea d’onda dell’oratore, che ne seguono con attenzione il discorso, ne sottolineano con calorosi applausi i passaggi più significativi. Sono pochi e brevi i fischi dei centri sociali che accolgono la critica all’azione di protesta di qualche giorno prima, con l’assalto alla sede mestrina della Lega Nord e la sua cacciata simbolica dalla città, mediante lo sgombero forzato di tutto quanto conteneva sul marciapiedi. Per Cacciari si tratta di gesti controproducenti, perché nel paese spira un vento che tira in direzione contraria alle idee e ai valori in cui noi e lui crediamo e così si rischia di alimentarlo, di trasformarlo in una bufera; perché, sempre secondo il sindaco, siamo su un crinale pericoloso, a un passo dalla ricerca del capro espiatorio. Non si parli di «razzismo» per quelli del comitato, sono cittadini e non dei «nemici», bisogna dialogare con loro come con tutti, se saranno possibili altri miglioramenti al progetto si faranno. E però niente cedimenti, niente passi indietro: nel finale la temperatura emotiva raggiunge il suo apice, si percepisce l’uomo fremere di rabbia e indignazione, dietro il velo sottile di una consumata abilità retorica. «Il nuovo campo si farà. Oggi mi vergogno di non essere ancora riuscito a farlo. Se ci sarà bisogno, pur di realizzare il progetto andrò a farlo io solo, senza alcun aiuto. Se i comitati non si convinceranno con la ragione, saranno convinti dalla legge. Perché la legge è dalla nostra parte».
Il discorso è finito, Cacciari riceve le congratulazioni dei politici presenti a bordo palco, la manifestazione si scioglie con l’accompagnamento di un ultimo brano musicale. «Sanguigno», l’ha definito il giorno dopo un quotidiano. Accalorato, veemente, appassionato. Un discorso poco «politico», senza tatticismi, e non solo perché il sindaco giocava in casa: l’ho avvertito sincero e come me, credo, anche gli altri della manifestazione. Del resto nessuna sorpresa, il personaggio è questo. Poco incline alla diplomazia, a differenza che nei suoi trattati filosofici è diretto, esplicito, a volte persino di grana grossa nell’eloquio. E non c’è contraddizione tra il repressore del commercio «abusivo» e il garante dei veneziani sinti: in testa ai suoi pensieri sta la «legalità», una versione attenuata, ristretta, normata di diritti.
Mentre me ne torno verso casa con lo spirito risollevato per la riuscita della manifestazione, mi scopro a rimuginare su un punto, del discorso di Cacciari, che mi ha colpito, su quell’invito al dialogo con tutti, così insistito e convinto che quasi ha convinto anche me.
Una parola! La facciamo troppo facile, mi sa! All’altezza del Candiani ci supera una signora in abbigliamento casual, abito di lino fucsia, tacchi a spillo e busta di carta di una boutique elegante in una mano. Sta parlando al cellulare e ad alta voce e con tono scandalizzato dice: «il "peloso" era in piazza Ferretto e ha detto che dovremmo vergognarci». E all’interlocutore che chiede lumi: «Ma sì, il "peloso", Cacciari; era in piazza per quella faccenda del campo dei rumeni [sic!]. Noi dovremmo vergognarci? Si vergogni lui! Guarda, io non sono mai stata una bombarola ma stavolta ci metterei volentieri una bomba, sotto a Cacciari!».