di Piero Brunello
Si propone l’intervento di Piero Brunello al seminario di presentazione della rivista S-Nodi, che si è tenuto presso il Dipartimento di Studi Storici dell’Università di Venezia (20 febbraio 2008). La rivista «S-Nodi», un progetto di Giulia Albanese, Margherita Angelini, Claudia Baldoli, Tommaso Baris, Emmanuel Betta, Alessandro Casellato, Eva Cecchinato, Daniele Ceschin, Simon Levis Sullam, Erika Lorenzon, Giovanni Sbordone, Gilda Zazzara, è disponibile – gratis per gli utenti registrati –, sul sito dell’editore (www.scriptaweb.it); il programma-manifesto è accessibile senza registrazione.
1. I redattori dicono di condividere “lo spaesamento dei tempi in cui viviamo: quello che è avvenuto dopo il 1989, quando non solo i confini nazionali hanno preso a ridisegnarsi senza sosta al seguito dell’economia e della politica mondiali, ma intere gerarchie di rilevanze culturali e ideologiche si sono sgretolate, e hanno iniziato a modificarsi profondamente modi e stili di vita e con essi innumerevoli biografie”. Questa generazione dice di avere “un ricordo vivido” della caduta del muro di Berlino, e di esserne stata segnata, e di fare storia per questo. “Ricordo vivido”? Isnenghi scrive che nel 1989 i redattori “erano ancora ragazzi” (p. 8).
Come altre nel passato, questa generazione sceglie a data significativa un nodo irrisolto della generazione precedente, dei maestri e dei padri, forse dei fratelli maggiori. Sembra un nodo che lega, piuttosto che uno snodo da cui ci si libera. Questa generazione era troppo giovane per la rivolta del punk e l’ironia dei CCCP: oppure non ne è stata coinvolta.
2. Gabriella Gribaudi ha mostrato come la memoria ufficiale della seconda guerra, legata alla divisione del mondo in due blocchi, ha impedito di “ragionare liberamente sulla guerra e sulla terribile escalation delle armi distruttive cui il secolo passato ha assistito, sulle ragioni e le dinamiche della violenza”. I simboli della morte di massa nella seconda guerra mondiale furono i bombardamenti aerei e le camere a gas. Il perfezionamento delle armi e delle tecniche di distruzione, iniziato tra le due guerre, sarebbe culminato nella bomba atomica1.
Fu il movimento antinucleare, nel secondo dopoguerra, a denunciare la produzione di mezzi di sterminio di massa, e a indicare nel 6 agosto 1945 l’inizio dell’epoca che “non potrà più finire, tranne che con la fine stessa”2. La memoria ufficiale della seconda guerra, che considerava legittima la guerra totale, mise al bando queste voci. I bombardamenti sulle città, rimossi. Ancora oggi quella memoria ufficiale viene usata per condurre altre guerre. Anche per questo è necessario uscirne.
3. Mario Isnenghi indica come momenti di svolta in cui analizzare i nessi tra pubblico e privato, le seguenti date: 1861, 1922, 1945, 1989 – “gli anni paletto dove le barche invertono la direzione e si manifesta l’abilità dei timonieri”. Tornerò sulle metafore, e mi soffermo sulle date. Non voglio notare quelle che mancano. È Isnenghi stesso per primo ad avvertire che ce ne sono altre: “I nati sul finir del secolo hanno vent’anni quando Mussolini va al potere e poco più di quaranta quando ne viene sbalzato: fanno poi a tempo ad essere attraversati da cesure minori, ma pur incisive – quali il ’56, il ’60, il ’69, e non è finita” (p. 12). Ma non noto le assenze perché mi chiedo innanzitutto in base a che cosa vengono individuate le “cesure” più o meno “incisive”.
Sono date che riguardano lo Stato, il partito e le ideologie politiche, ma preponderanti sono quelle relative allo Stato nazionale italiano.
Scrive Isnenghi che nell’Ottocento (e si riferisce all’Italia dell’Ottocento), a differenza che nel Novecento “la vita poteva scorrere più o meno uguale ed essere attraversata da un solo grande cambiamento, piazzato verso la metà del secolo, al quale la società chiedeva più o meno pressantemente di rapportarsi”. Sì, se si pensa agli assetti statuali, e si escludono le aggressioni coloniali. No, se si pensa alle carestie, alle epidemie di colera e di morbillo, alle innovazioni tecnologiche (vapore, treno, gas, telegrafo, illuminazione elettrica), alle migrazioni, alle scoperte nel campo della medicina e così via. Anche per il Novecento, fa una bella differenza prima o dopo la penicillina; per non parlare delle crisi finanziarie ed economiche, del traffico e dell’inquinamento delle città, della scomparsa dei ghiacciai, di cinema, radio, tv, auto, telefono, pc e così via.
Nel saggio di Isnenghi i momenti di svolta sono le date significative di una biografia della nazione. Queste ultime incrociano, quando incrociano, individui adulti, perlopiù uomini o donne in qualche modo a loro legate, in vita, in buona salute e consapevoli di vivere un momento storico.
Rotte dell’io? O non piuttosto rotte dello Stato? Oppure quando si dice “Rotte dell’io / rotte del noi” s’intende “Rotte dell’io / rotte dello Stato”?
Non credo che ci sia un rapporto automatico tra le date e le svolte significative di una biografia e quelle dello Stato nazionale; e non credo nemmeno che il “noi” e il pubblico s’identifichino e si risolvano nella dimensione statale: se così fosse, ne avrei paura.
4. Il fatto di scegliere come data discriminante il 1989, e di studiare quello che avviene prima, permette di assumere come cornice degli eventi e delle biografie lo Stato nazionale. È solo dopo il 1989, scrivono infatti i redattori, che “i confini nazionali hanno preso a ridisegnarsi senza sosta”. Diverso sarebbe stato scegliere a data discriminante le guerre nella ex Jugoslavia degli anni Novanta, che mettono in discussione i concetti stessi di “stato nazionale” e di “indipendenza”, e il nesso tra cittadinanza, libertà e nazionalità.
5. Torno alle metafore. La prima, che ho già ricordato, è veneziana, ricorda la Regata storica (le barche, il giro del paletto, le rive). Al paletto, dove s’inverte la direzione, si vede l’abilità di chi dirige la barca: sulle rive “gli spettatori”. La seconda metafora invece è teatrale. Ci sono, scrive Mario Isnenghi, “protagonisti, comprimari, comparse e coro” (p. 11). Oltre a questi c’è «“la zona grigia”, robetta – o robaccia» (p. 6).
Protagonisti, comprimari e comparse rispetto a che cosa? I ruoli sono chiari solo se si hanno chiare le gerarchie e le distinzioni tra pubblico e privato. Ma queste distinzioni sono costruzioni storiche. Nel suo costituirsi la Politica dichiara quello che è Politica e quello che non lo è, quello che è Pubblico e quello che è Privato: ma la storiografia, invece di prenderle sul serio, deve decostruirle.
Che cos’è Nane, protagonista del poemetto di Pascutto? Un protagonista, un comprimario, una comparsa? «Nat ‘na freda matina de genaro / in una baraca meza sfassada / batizà in furia senza campane / parché a la granda se gera roto / el batocio, sposà senza campane / perché menava la tosa in cesa / col’ scuro piena de tre mesi, / senza campane anca co l’è morto / lontan, voltra el mar, a Tripoli / dove co se more no i sona campane»3. Nane è uno dei morti della poesia di Gioacchino Belli, sepolti senza moccoli e senza cassa: «Cuesti semo noantri, Crementina, / Che cottivati a ppesce de frittura, / Sce butteno a la mucchia de matina» (n. 815, Li morti de Roma).
La storiografia immagina individui consapevoli, preveggenti e razionali, che comprendono o pensano di comprendere il senso degli eventi, e lascia tutti gli altri personaggi alla narrativa, alla poesia, alle colline di Spoon River.
6. Non voglio dire che la storiografia debba occuparsi degli individui anonimi, degli “ultimi”, dei “vinti” e così via. Dico che qualunque sia il proprio oggetto, deve interrogarsi su che cosa sia “storia”, su che cosa sia “grandezza”.
In un passo scritto durante la seconda guerra mondiale, Simone Weil riflette sul fatto che fra i libri che avevano influenzato Hitler da giovane vi fosse una biografia di Silla. Ne parlo non perché questo passo riguardi la rivista, ma perché illustra bene quello che voglio dire, e perché indica i termini di un’eventuale discussione. Hitler, commenta Simone Weil, aveva desiderato quella stessa grandezza “alla quale noi tutti ci inchiniamo quando volgiamo gli occhi al passato”. E allora, in che modo punire Hitler? Con una trasformazione completa “della concezione e del significato della grandezza”: anche per evitare in futuro “a un piccolo ragazzo sognatore e solitario, tedesco o no, di pensare che Hitler è stato un essere grandioso, che ha avuto dal principio alla fine un destino grandioso, e di desiderare con tutta l’anima un eguale destino”. Ciascuno di noi può dar inizio alla punizione di Hitler all’interno della propria anima, modificando l’idea di grandezza (la “nostra falsa idea di grandezza”). “Non è affatto facile – conclude Simone Weil –, perché vi si oppone una pressione sociale pesante e avviluppante come quella dell’atmosfera. Per giungervi, bisogna escludersi spiritualmente dalla società”4.
7. Il quadro La caduta di Icaro, di Bruegel, rappresenta una scena quotidiana sulla riva del mare. In primo piano un uomo sta all’aratro tirato da un cavallo. Un pastore segue un gregge. Navi a vela entrano ed escono dal porto. Sullo sfondo, una città. Nell’angolo basso a destra bisogna fare molta attenzione per individuare due gambe di qualcuno che sta per inabissarsi – è Icaro caduto. Chi sono i protagonisti, i comprimari, il coro?
8. Sviluppando una riflessione di Primo Levi, Gabriella Gribaudi scrive che la “zona grigia” è un termine indistinto, che invece va indagato, per dare conto “della ricchezza di esperienza di una gran parte della popolazione, in particolare di quella femminile”. La prima memoria a criticare il discorso pubblico ufficiale sulla guerra è stata la memoria della Shoah: “Oltrepassava le frontiere delle nazioni, era di per sé una critica alle grandi narrazioni nazionali e maschili, e metteva al centro dell’attenzione per la prima volta le vittime civili”. Le memorie della popolazione civile e delle donne, osserva Gribaudi, sono state interdette dalla “mitologia nazionale”: racchiuse agli individui, alle famiglie, alle comunità, oppure ridotte al silenzio, fino a che non si sono potute esprimere solo dopo la fine del mondo bipolare5.
9. In un mondo bipolare gli atteggiamenti degli attori sono essenzialmente due: adesione o rifiuto. Gli attori s’identificano con le ragioni dell’una o dell’altra parte. Alla fine vincono o sono sconfitti. La storia è una scena in cui lottano dei, eroi, masse. Il genere narrativo è l’epica.
Come ho detto, le corrispondenze tra biografie e vicende collettive, tanto più se queste ultime riguardano lo Stato, non sono meccaniche e univoche. In ogni caso ogni vita ha le sue date. Ma anche limitandoci agli eventi storici a cui si riferisce la rivista, non sempre l’epica è un genere adatto. Una donna è stuprata da un soldato dell’esercito di liberazione; un bambino muore sotto le macerie di una bomba sganciata per liberarlo dagli oppressori; un rivoluzionario viene mandato a morte in nome di quella rivoluzione per cui ha lottato; un giovane che ha combattuto per la patria, a liberazione avvenuta sceglie il dispatrio.
Più adatta in questi casi è la figura retorica dell’antifrasi, che racconta un evento presentato come positivo, rimarcandone invece il carattere negativo. L’antifrasi è possibile se si esce dal paradigma binario. È stato Aleksander Herzen, dopo la sconfitta della rivoluzione parigina del giugno del 1848, a scrivere che non basta odiare la corona, ma che è necessario perdere il rispetto per il berretto frigio6. L’antifrasi contesta l’autorità del padre.
10. Un libro importante per il convegno Rotte dell’io, rotte del noi7 e per la nascita della rivista S-nodi è Quando crolla lo Stato. Studi sull’Italia preunitaria (Liguori, Napoli 2003), curato da Paolo Macry, che Giulia Albanese e Margherita Angelini intervistano. A colpirlo, dice Macry, fu “l’improvvisa fragilità che mostravano gli Stati, la resa subitanea di macchine burocratico-militari ritenute fossilizzate ma grintose, come la Ddr o la Cecoslovacchia, per non dire dell’Urss” (p. 155). Gli storici hanno pensato che gli Stati fossero immutabili, dice Macry: per questo non ne hanno mai studiato l’implosione dall’interno.
È vero. Gli storici studiano la formazione dello Stato moderno e si fermano quando gli Stati si sono formati. Lo fanno perché escludono il loro crollo, oppure perché ne considerano legittimo o troppo noioso il funzionamento quotidiano. A differenza del crollo, la costruzione giorno dopo giorno dello Stato non avviene con gesti eclatanti e teatrali, bensì con firme, registri, annotazioni, verbali, concorsi, esami, orari, iscrizioni nelle liste di leva, carte d’identità, schede anagrafiche eccetera. “Le catene dell’umanità torturata sono di Kanzleipapiere”, ha scritto Kafka. Kanzleipapiere sono le carte protocollo, le scartoffie che si producono negli uffici e nelle cancellerie, moduli, schede, istanze8.
Perché è significativo il 1945, fine della guerra, oppure il periodo 1943-1945 in cui non si sa a quale Stato obbedire, e non è significativo invece il 1940, anno di entrata in guerra? Forse perché l’obbedienza non va spiegata?
E quando il crollo dello Stato è un’illusione ottica, e gli apparati restano immutati – polizia, ministeri, circolari e prassi amministrative, scuole e università, esercito, carabinieri, magistratura? Penso al romanzo L’orologio di Carlo Levi.
11. I giorni dal 17 al 22 marzo 1848 a Venezia sono uno degli esempi di “crollo dello Stato”. Gli ufficiali di marina all’Arsenale infrangono il giuramento all’imperatore e passano dalla parte degli insorti. Ma quello che è interessante non è tanto o non solo il dilemma (con il governo provvisorio o con il governo imperiale?), quanto piuttosto i modi con cui gli ufficiali mantengono il loro onore quando crolla lo Stato a cui hanno giurato fedeltà. Come infrangere il giuramento senza rimanerne disonorati? Chi si fece liberare dal giuramento dai propri superiori, chi finse di farsi sopraffare dalla forza, chi contrappose la fedeltà al popolo a quella all’imperatore. Ma il periodo di incertezza normativa si chiuse nel giro di un giorno. Rituali civili e religiosi celebrarono non la disobbedienza al vecchio regime, bensì l’obbedienza al nuovo, ribadendo il legame di sudditanza che lega un uomo allo Stato, e più in generale l’insieme di valori che costituiscono la virilità.
12. Credo che per studiare il tema proposto da Isnenghi – l’Italia è “arcipelago di ex” – convenga osservare le pratiche quotidiane: il repertorio di retroscena, cioè, e non quello di scena, e i tratti di un’antropologia cattolica di cui parla Giovanni Levi9. L’arcipelago di ex si riproduce nel trasformismo e nelle appartenenze corporative: per non andare troppo lontano, si potrebbe cominciare dall’università.
Non credo si debba studiare come la dimensione nazionale si rifletta in quella locale. Non bisogna cioè studiare lo Stato in una dimensione micro. Interessante, nel nostro caso, vedere piuttosto come diversi livelli interagiscono, e come per esempio conflitti locali possono utilizzare il linguaggio della politica nazionale.
Ps Queste note sono ispirate a Gigi Corazzol, Pensieri da un motorino. Diciassette variazioni di storia popolare, Quaderni di storiAmestre, 6, Mestre 2007, a cui devo molte riflessioni sul tono di voce di chi scrive di storia. Va da sé che Gigi Corazzol non ne è responsabile.
Ca’ Foncello, 1-20 febbraio 2008
- Gabriella Gribaudi, Guerra totale. Tra bombe alleate e violenze naziste. Napoli e il fronte meridionale 1940-44, Bollati Boringhieri, Torino 2005, pp. 18, 25. [↩]
- Günther Anders, Il mondo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 14-15. Cfr. Id., Discorso sulle tre guerre mondiali, a cura di Ea Mori, Linea d’ombra, Milano 1990. [↩]
- Romano Pascutto, Storia de Nane, Avanti, Milano 1963 [↩]
- Simone Weil, La prima radice. Preludio di una dichiarazione dei doveri verso la creatura umana, Edizioni di Comunità, Milano 1980 (terza ed.), pp. 195-196. [↩]
- Gribaudi, Guerra totale cit., pp. 22, 33. [↩]
- Aleksander Herzen, Dall’altra sponda [1850], trad. e note di Pia Pera, introduzione di Isaiah Berlin, Adelphi, Milano 1993, p. 95. [↩]
- Il titolo esatto del seminario, che si è tenuto presso il Dipartimento di Studi Storici dell’Università di Venezia il 7-8 aprile 2005, è Rotte dell’io. Itinerari individuali e collettivi nelle svolte della storia d’Italia. [↩]
- Michael Löwy, Kafka sognatore ribelle, Eleuthera, Milano 2007, p. 11. [↩]
- Giovanni Levi, Responsabilità limitata, “Altrochemestre. Storia e documentazione del tempo presente”, 5 (1997), pp. 63-66. [↩]