di Filippo Benfante e Piero Brunello
Rispondendo alla lettera di Francesco Bianchini, un lettore del “manifesto” che si dichiara “tifoso della Roma” e di “estrema sinistra”, Sandro Portelli fa la seguente osservazione a proposito della differenza dei gruppi ultras “di sinistra” dai gruppi di estrema destra: “La differenza non può stare solo nel colore delle sciarpe o delle magliette, ma nel fatto che chi è di sinistra sta in una logica altra da chi è di estrema destra, non speculare ad essa. Cose incoraggianti da questi compagni ne abbiamo viste e sentite; sarebbe bello che insistessero e andassero oltre e fossero ancora più nitidamente diversi” (“il manifesto”, 10 febbraio 2007). Per continuare questa discussione nel nostro sito, che ha cominciato a pubblicare le cronache calcistiche di Matteo Di Lucca, riproponiamo un intervento di Filippo Benfante e di Piero Brunello (L’obiettivo è la nonviolenza, “il manifesto”, 27 giugno 2001), con lievi modifiche e un nuovo titolo. Benfante e Brunello sono autori di Lettere dalla curva sud. Venezia 1998-2000, Odradek, Roma 2001.
La partita VeneziaMestre-Verona, disputata allo stadio Penzo di Venezia, nell’aprile del 2000, è stata una delle più riuscite manifestazioni politiche a cui abbiamo partecipato negli ultimi anni. Quando il portiere Frey del Verona è venuto sotto la curva del VeneziaMestre per mettersi tra i pali della porta, noi abbiamo cominciato a fargli “buu, buu” come i tifosi della sua squadra fanno quando toccano palla i giocatori neri. Lui ha guardato in su con la coda dell’occhio e gli veniva da ridere. La Curva Sud è una struttura di tubi Innocenti e sovrasta la rete di recinzione del campo di gioco. Le facce dei giocatori si vedono bene. Frey è bianco come tutti i giocatori della sua squadra.
Quel giorno una buona parte della curva Sud, incitata dal gruppo Ultras Unione, applicava a suo modo il decreto che il governo aveva promulgato contro gli episodi di razzismo, e che la polizia applicava anche lei a suo modo, sequestrando stelle rosse, Che Guevara e foglie di marijuana disegnate a pennarello.
Ecco un buon esempio di politica: divertimento, piacere di fare cose assieme, ironia. Ci sarebbe piaciuto trovare lo stesso clima sfilando a Vicenza l’anno prima, manifestando contro le bombe sul Kosovo. Allora ci era capitato di entrare in piazza, con un corteo pacifista, accompagnati dalla colonna sonora di Avanti popolo, tuona il cannone. La debolezza di un movimento dipende anche dal fatto di non riuscire a staccarsi da un vecchio repertorio di simboli, di canzoni, di ritualità. Ed ecco qui invece, nella curva di uno stadio, un inatteso colpo di fantasia: per controbattere gli slogan antimeridionali avevamo già cantato “O sole mio”, ora per rendere ridicoli gli ululati razzisti si faceva “buu” a tutti i giocatori bianchi.
Da qualche tempo la geografia dei rapporti tra gruppi ultras si sta ridisegnando attorno al contrasto tra razzismo e antirazzismo. Su questa base si modificano gemellaggi, amicizie e rapporti di non belligeranza. L’atteggiamento nei confronti delle croci celtiche, degli striscioni antisemiti e dei cori razzisti sono diventati una discriminante. Ne discutono le fanzine in tutta Europa. Anche le società sportive devono misurarsi, sia per motivi di immagine, sia per evitare multe e penalità. Bisogna però chiederci se tutto questo sia sufficiente.
Un giocatore nero viene insultato ricordandogli il colore della pelle, e uno bianco viene insultato urlando “puttana” alla moglie. Perché il primo caso suscita una mobilitazione antirazzista e il secondo è considerato normale e nessuno ci fa caso? Eppure hanno una radice comune. L’antirazzismo non mette in discussione la ritualità, i modelli di comportamento e il maschilismo che sta alla base dell’adesione ai gruppi ultras. Per esempio la campagna che molti gruppi ultras stanno facendo per isolare nel disprezzo quanti usano coltelli negli scontri tra tifoserie è stata ed è molto importante. Ma gli appelli (“Basta lame, basta infami”) vengono fatti in nome di un codice d’onore virile che prevede scontri leali, tra ultras, in numero pari e a mani nude, senza coinvolgere semplici spettatori; così come prevede, tra le altre cose, destrezza nel rubare striscioni o stendardi degli avversari, e capacità di difendere i propri striscioni, la propria fetta di stadio e gli spazi antistanti il proprio bar.
Ammettiamo che nelle curve si cominci a cantare sull’aria del canto anarchico “Nostra patria è il mondo intero / nostra legge la libertà / e un pensiero…” con finali del tipo “l’Unione in serie A”o “la Lazio in Champions League”. È difficile da immaginare. Forse queste parole modificherebbero il modo di fare di chi le canta. Ma cosa cambierebbe, se l’atteggiamento di fondo e il modo di presentarsi dovesse rimanere lo stesso? Trattandosi di un repertorio espressivo, le forme dell’azione sono altrettanto, se non più importanti. Quello che soprattutto importa nei cori da stadio è cantare a comando, così come è decisivo il fatto che a lanciare il coro sia sempre un maschio, che le donne accettate nella gerarchia debbano avere modi di fare maschili, che i tifosi avversari siano “merda” e così via.
Crediamo che i gruppi ultras che stanno discutendo di razzismo, pay tv e misure di polizia, dovrebbero mettere come obiettivo non l’antirazzismo (questo sarebbe una conseguenza), bensì la nonviolenza. Questo obbligherebbe a interrogarsi sui rapporti tra ultras e gli altri protagonisti dello spettacolo, dagli spettatori della propria curva ai tifosi della squadra avversaria. Si tratta di riflettere sul comportamento dei gruppi organizzati e su quello della polizia, le cui azioni non vanno viste solo come una “reazione” (che perciò tutti giustificano anche quando è violentemente cieca e spropositata), ma come una politica messa in atto da uno dei protagonisti. La discussione che alcuni gruppi, come gli Ingrifati del Perugia, hanno avviato su come intervenire per la “riduzione del danno” nei conflitti all’interno degli stadi, ci sembra vada in questa direzione. Il calcio ritualizza lo scontro: proprio per questo si può imparare molto dalle componenti fantasiose che si esprimono nel tifo. Scriviamo queste righe pensando alle persone che frequentano le curve dello stadio e seguono una tifoseria organizzata per il gusto di stare assieme e di fare spettacolo: oltretutto questo sarebbe un modo, per quanto piccolo, per rifiutare complicità con un sistema corrotto e ipocrita, quello del calcio professionistico, che una parte degli ultras sente sempre più distante e ostile.