di Mirella Vedovetto
È domenica mattina, oggi il tempo è sereno ma fino a ieri pioveva. Mi trovo all’inizio di un tratto di via Galilei, nella zona artigianale di Mogliano Veneto, accanto a dove abito da 23 anni, cioè da sempre. Sono qui da più di un’ora e la zona è deserta, solo un’auto è passata: il padre insegnava al figlio a guidare. Ora una ragazza porta il cane a passeggio e cammina in mezzo alla strada. Io sono da sola e fingo di passeggiare.
Molto silenzio al di là del continuo cinguettio e di qualche cane che abbaia: oggi non si lavora. Sullo sfondo alti tralicci della corrente e qualche gru. Mi guardo intorno e tutto mi fa venire in mente gli aggettivi “geometrico” e “squadrato”, colore grigio. La zona è attraversata da due strade parallele e altre due perpendicolari a queste. Nello spazio delineato da questi incroci ci sono capannoni tutti in fila, alti poco meno di una casa a due piani. Si notano a prima vista quelli costruiti più di recente: molte vetrate, colori pastello, alcuni hanno anche un giardino curato. Mia mamma, anche lei vive qui da una vita, in genere fa molta fatica a collocare nel tempo i suoi ricordi ma in questo caso sa di preciso quando hanno cominciato a costruire questa zona artigianale: “è stato quando hanno sequestrato Moro”, mi dice. “E prima?”. “Tutti campi, e solo una strada di terra e sassi che portava a Mogliano”.
Adesso c’è l’asfalto, quasi nessun cartello stradale, se non quello delle vie. Sulla strada creata più di recente, in seguito all’ampliamento della zona, erano anche state tracciate le linee bianche per dividere le carreggiate, ma nel giro di un anno si sono sbiadite e non si notano più. I marciapiedi sono dissestati, crepati dall’erba che spunta, sgretolati in molti punti, con buche. In questi sono state ricavate delle specie di aiole d’erba, che si intervallano con l’asfalto in corrispondenza dei cancelli elettronici delle fabbriche. Lungo le strade è sporco: tappi di bottiglie, fazzoletti di carta, sacchetti di merendine, lattine, mozziconi e pacchetti vuoti di sigarette, preservativi usati, sassolini, sabbia, foglie secche. I cancelli sono elettronici, scorrevoli, soltanto uno è chiuso con una grossa catena, con appeso un cartello di divieto d’accesso, sugli altri, invece, divieti di sosta e passo carrabile, altri cartelli non molto grandi portano il nome della ditta. Non per tutte è facile capire cosa producano: ma per lo più sono fabbriche di metallurgia, elettronica, vetrerie, una stireria, una carrozzeria…
Mi soffermo a guardare il giardino di un “laboratorio elettronico di assemblaggio tradizionale”: uno steccato di legno sta intorno a un prato all’inglese e una pozza, a mo’ di laghetto, due abeti, e galline. C’è anche un cane e proprio perché abbaiava tanto forte quando passavo con il mio non mi ero mai riuscita ad avvicinare al suo recinto, ma qui è tutto un abbaiare quando vado a fare il “giro delle fabbriche” col cane. Fare il giro delle fabbriche” è un’espressione che fa parte del mio vocabolario familiare: indica la passeggiata che si va a fare lì intorno. Mia sorella, per tenersi in forma, ogni sera lo faceva pure di corsa. Molte ipotesi su quanto fosse lungo: mia mamma alla fine lo percorse in auto e il contachilometri aveva indicato non ricordo più se un chilometro o poco più. Oggi è la prima volta che faccio il giro guardandomi intorno: mi viene in mente che da bambini si andava a giocare in questi capannoni ancora in costruzione, quando non c’erano i muratori che ci lavoravano.
L’unico spazio in cui non si è ancora costruito è di fronte a casa mia: sull’altra sponda della Peseggiana. Mio papà, operaio a Marghera, ci aveva fatto un orto, anche se la terra non era di nostra proprietà, in realtà non si sapeva bene di chi fosse (del comune? del consorzio Dese?). Oggi ci sono varie ipotesi sul futuro di quel terreno: chi dice che ci faranno un canile o un luogo per addestrare cani, chi un parco con scivoli e altalene, chi capannoni.
Continuo la mia passeggiata. In tre casi di fronte alla fabbrica il proprietario si è costruito anche la casa, queste abitazioni si confondono bene con la geometria e i colori dei capannoni. Non stonano nemmeno le due centraline elettriche all’inizio e alla fine di questa via: s’innalzino in piccoli quadrati d’erba, e qualcuno ci ha scritto con lo spray in nero “gioventù nazionale” e in rosso “falce e martello” e “hasta la victoria siempre”. Il giorno dopo, lunedì, alle 9,30 circa prendo l’ombrello e torno a fare il giro: c’è molto più rumore, quello del motore del furgone che raccoglie le immondizie, suoni metallici di lamiere che rimbombano; passa qualche automobile, solo una si ferma e parcheggia a lato della strada tra una fila di utilitarie, qualche furgone e piccolo camion fanno manovre. Se si ascolta si capisce che all’interno dei capannoni c’è gente che lavora; rispetto a ieri ci sono più auto parcheggiate, ma, come ieri, nessuno a piedi.
Marzo 2002