di Edmondo De Amicis e Ferdinand Gregorovius
Per il centocinquantesimo, abbiamo deciso di far caso anche all’anniversario della breccia di Porta Pia, interpellando due testimoni dell’epoca: Edmondo De Amicis, che entrò a Roma con l’esercito italiano, in qualità di ufficiale e di giornalista militare; e lo storico prussiano Ferdinand Gregorovius, che si era stabilito a Roma nel 1852, decidendo di intraprendere studi sulla Roma medievale. Mentre per De Amicis gli eventi si svolgono sotto lo sguardo di Marco Aurelio, cioè della Storia, per Gregorovius al contrario il 20 settembre è la fine della Storia che aveva reso grande la città. Con una nota finale.
1. Edmondo De Amicis, Il tricolore nelle mani di Marc’Aurelio
Il Campidoglio è ancora occupato dagli squadriglieri e dagli zuavi.
Una folla di popolo accorsa per invaderlo è stata ricevuta a fucilate. Parecchi feriti furono ricoverati nelle case; fra gli altri un giovanetto che marciò quindici giorni al seguito delle truppe. Il popolo è furente. Si corre a chiamare i bersaglieri. Due battaglioni arrivano sulla piazza, ai piedi della scala. I pontifici, al primo vederli, cessano di far fuoco, ma restano in atto di resistere. Una specie di barricata di materassi è stata costrutta a traverso il Campidoglio. L’assalirla di viva forza potrebbe costar molte vittime; s’indugia, forse gli zuavi s’arrenderanno; si dice che hanno paura dell’ira popolare. Tutte le strade che circondano il Campidoglio sono piene di gente armata che sventola bandiere tricolori e canta inni patriottici. Intanto dai bersaglieri che attendono sulla piazza vengono recati in gran fretta, liquori, sigari, biscotti. La moltitudine va crescendo; cresce lo strepito. Qualcuno, forse un parlamentario, è salito sul Campidoglio. Parecchi uffiziali lo seguono. La folla, dal basso, guarda con grande ansietà. Ad un tratto cadono i materassi della barricata e appaiono le uniformi dei nostri ufficiali che gitano la sciabola e chiamano il popolo gridando: Il Campidoglio è libero. La moltitudine getta un altissimo grido e si slancia con grande impeto su per la scala gigantesca; passa fra le due enormi statue di Castore e Polluce; circonda il cavallo di Marc’Aurelio; invade i corpi di guardia degli zuavi e rovescia, spezza e disperde tutto quanto vi trova di soldatesco. In pochi minuti tutto il Campidoglio è imbandierato. Il cavallo dell’imperatore romano è carico di popolani; l’imperatore tiene fra le mani una bandiera tricolore. Un reggimento di fanteria occupa la piazza. È accolto con grida di entusiasmo. La banda suona la marcia reale; migliaia di voci l’accompagnano. All’improvviso tutte le mani si sollevano verso la torre. Il popolo e i soldati ne hanno sfondata la porta, son saliti sulla cima, hanno imbandierato il parapetto. Un pompiere sale per mezzo d’una scala sulle spalle d’una statua che s’innalza sull’estremità e lega una bandiera alla croce. Un fragoroso applauso e lunghissime grida risuonavano nella piazza. La grande campana del Campidoglio fa sentire i suoi solenni rintocchi. Da tutte le parti di Roma il popolo accorre entusiasticamente. Gli ufficiali che si trovano sul Campidoglio sono circondati e salutati con incredibile affetto. Si grida: Viva Vittorio Emanuele in Campidoglio! Le donne si mettono le coccarde tricolori sul seno. Da tutte le finestre dei vicini palazzi si agitano le mani e si sventolano i fazzoletti. Molti piangono. Il movimento della folla è vertiginoso; il rumore delle grida copre il suono della grande campana.
I conventi vicini, dove si crede che siansi rifugiati gli zuavi e gli squadriglieri, sono circondati dai bersaglieri e dalla fanteria.
[…] In via del Corso non possono più passare le carrozze. I caffè di piazza Colonna son tutti stipati di gente, ad ogni tavolino si vedono signore, cittadini e bersaglieri alla rinfusa. Una parte dei bersaglieri accompagna via gli zuavi in mezzo ai fischi del popolo; tutti gli altri sono lasciati in libertà. Allora il popolo si precipita in mezzo alle loro file. Ogni cittadino ne vuole uno, se lo piglia a braccetto e lo conduce a desinare. Molti si lamentano che non ce n’è abbastanza, famiglie intere li circondano, se li disputano, li tirano di qua e di là, avvicendando clamorosamente le preghiere e le istanze. I soldati prendono in collo i bambini vestiti da guardie nazionali. Le signore domandano in regalo le penne. Numerosissime turbe di cittadini continuano a passare l’unadopo l’altra pel Corso con grandi bandiere; alcuni drappelli ne hanno quattro, sei, dieci; alcune bandiere sono alte più del primo piano delle case e vengono portate da due o tre persone. […] Passano carrozze cariche di cittadini che agitano in alto il cappello; i soldati rispondono alzando il cheppì; le braccia si tendono dall’una parte e dall’altra, e le mani si stringono. Passano signore vestite dei tre colori della bandiera nazionale. […] In piazza S. Carlo un drappello di carabinieri reali è ricevuto con indicibile festa. Da tutte le strade laterali al Corso continuamente affluisce popolo. Non v’è più gruppo di cittadini che non abbia con sé un soldato. Li osservano da capo a piedi, gli tolgono di mano le armi, gli parlano tenendogli le mani sulle spalle, stringendogli il braccio, guardandoli negli occhi cogli occhi scintillanti di gioia. «Viva i nostri liberatori!» si grida dieci volte al minuto. Davanti al caffè di Roma alcuni signoroni gettano le braccia al collo di due robusti artiglieri e li coprono di baci disperati. A quella vista tutti gli altri intorno fanno lo stesso; cercano correndo altri soldati, li abbracciano, li soffocano a furia di baci. «Viva il nostro esercito nazionale!» gridano cento e cento voci insieme. «Questi sono i nostri soldati! – Questi sono i nostri fratelli! – Viva i soldati, i soldati italiani! – Viva il nostro re! – Viva la libertà!» E i soldati rispondono «Viva Roma! Viva la capitale d’Italia!». In molti, specialmente nei giovani, l’entusiasmo sembra delirio; non hanno più voce per gridare, si agitano, pestano dei piedi, accennano le bandiere e gli stemmi reali e fanno atto di benedire, di ringraziare, di stringersi qualche cosa sul cuore.
Una stampa dell’epoca: i bersaglieri e il tricolore nelle mani di Marco Aurelio in Campidoglio.
2. Ferdinand Gregorovius, È finita la Roma medievale
Roma, 30 ottobre
Il 15 di sera sono partito da Monaco ed in 48 ore sono giunto a Roma. Vi sono arrivato alle undici di notte, il 17.
Il violento sconvolgimento della città mi è apparso come la metamorfosi di un giuoco di prestigio. Gli italiani sono subentrati al posto dei papalini. Invece degli zuavi sono i bersaglieri che percorrono le strade al suono di una specie di musica da banda a cavallo.
Cento cattivi giornali sono sorti come i funghi e vengono strillati in tutte le strade. Una invasione di venditori e ciarlatani riempie le piazze. Ad ogni momento vengono messe fuori delle bandiere, fatte delle dimostrazioni. Sono stati decretati dei monumenti a Ciceruacchio e a Cairoli. Un’ondata di editti viene quotidianamente emessa dalla «Gazzetta ufficiale» in cui si è ora trasformato il «Giornale di Roma».
Il Papa si è dichiarato prigioniero, ha rilasciato una protesta e, con una Bolla, ha sospeso il Concilio. In Vaticano si trovano guardie italiane; attraverso la porta semiaperta del colonnato ho visto svizzeri intimiditi. Nel Vaticano abitano gli intimi del Papa, fra i quali anche Kanzler. I cardinali non si fanno mai vedere, oppure, se escono, le loro vetture sono senza contrassegno. Tutta la loro pompa e la loro magnificenza è sfumata. Solo singoli sacerdoti vanno per le strade, timorosi, come delle ombre. Ho trovato invece una sera il cardinale Silvestri dal duca di Sermoneta, che era presidente della Giunta ed aveva rimesso al re il plebiscito di Roma. Lamarmora è qui il governatore. Il partito d’azione fa pressione sul re affinché trasferisca immediatamente la residenza a Roma, per creare un fatto compiuto. Il sovrano esita. Non ha neanche un palazzo a Roma dove abitare. Non ha diritto al Quirinale di cui i funzionari pontifici rifiutano di dare le chiavi.
Gli italiani fanno delle raccolte per i superstiti dei caduti durante il loro assalto a Porta Pia, e parlano seriamente di una campagna romana. I caduti sono, credo, dieci uomini. Dato che vengo dalla sanguinosa guerra in Francia, queste faccenduole mi disgustano.
Roma perderà l’atmosfera di repubblica mondiale che ho respirato qui per 18 anni. Essa scende al grado di capitale degli Italiani i quali sono troppo deboli per la grande posizione in cui sono stati messi dalle nostre vittorie. È una fortuna che io abbia quasi terminato i miei lavori – oggi non mi ci potrei più immergere. Ancora tre mesi di sforzi e sono arrivato al termine. Il medio evo è stato spazzato via come da un vento di tramontana, e con esso tutto lo spirito storico del passato. Sì, questa Roma ha perso completamente il suo incanto. […]
Roma, 13 novembre
Il 1° novembre ho ripreso i capitoli storico-culturali e portato a termine il periodo di Giulio II. Dato che il mio lavoro sta per concludersi, anche Roma sfiorisce per me. Percorro le strade alla ricerca delle tracce della mia passione e del mio entusiasmo, non li sento più e mi sembra che questi monumenti da me così avidamente scrutati guardino su di me come fossero fantasmi. Donna Ersilia alla quale dissi che volevo lasciare Roma, mi ha tacciato di ingratitudine, poiché Roma è stata la patria dei miei lavori e la fonte della mia gloria. È vero, lasciare Roma significa per me prendere congedo dalla mia vera vita. Ma questa epoca un giorno o l’altro si concluderà.
È come un deserto questa città, malgrado tutta l’agitazione, e debbo abituarmi a questa nuova situazione. Il nuovo Governo ha aperto con la forza le porte del Quirinale e si è impadronito del palazzo come futura residenza del re d’Italia. Il Papa ha emanato una protesta. I gesuiti lo spingono a fuggire da Roma. Questi stessi sono stati, alcuni giorni orsono, buttati fuori dal Collegium Romanum, in seguito ad una furibonda dimostrazione popolare davanti a questo palazzo e all’abitazione di Lamarmora. Adesso si radunano nel Gesù. […]
Roma, 27 novembre
Qui, molti disordini, grida, vacillamento in tutto. Il Papa ha rilasciato il 1° novembre contro gli invasori l’excommunicatio major; il Governo è stato così meschino da sequestrare i fogli sui quali era stampata. Non vi è grandezza nelle azioni dell’Italia.
Il senatore di Roma è stato abolito e trasformato in un sindaco. Dovrà essere d’ora innanzi, Syndacatus Popolusque Romanus, ed è un principio, questo, nella città, che presto potrà infastidire gli italiani; non ha niente a che fare con la monarchia, perché è cosmopolitico.
Si cominciano a fare scavi nel Foro. Rosa è stato nominato direttore delle antichità, al posto di Visconti. Sono stati nominati i professori per il novo liceo.
Continuo i miei lavori alla storia culturale del sedicesimo secolo, anelando dolorosamente al loro termine, poiché l’epoca non è più favorevole per tali lavori. […]
Roma, 7 dicembre
[…] Pio IX è quasi dimenticato nella sua propria Roma. Come un mito, egli siede nel Vaticano, circondato da gesuiti e da fanatici che gli fanno credere ogni fantasia immaginabile. Così sogna una restaurazione del Papato per opera dell’imperatore tedesco e ciò in seguito all’invio di Ledochowski al quartiere generale. Nel frattempo Roma inizia i suoi preparativi per diventare capitale. La solenne dichiarazione del re, nel discorso della Corona, ha cancellato ogni dubbio. Lo si aspetta già per la fine di dicembre. La sua fortuna è ancora più grande di quella di Guglielmo 1°. Se quest’ultimo ha ottenuto tutto attraverso gli sforzi eroici del popolo, quell’altro deve tutto alla fortuna ed alle nostre imprese. […]
Roma, 18 dicembre
[…] Ho cercato di accelerare i miei lavori finali. Qui, eccessi nelle strade, grossolanità, sobillamenti da ambedue le parti, insicurezza – e, aggiunto a questo, il fatto che non ha precedenti nella storia il Papa detronizzato, il principe di Roma, ancora qui in Vaticano. Queste vecchie talpe sono abituate a seppellire; scavano sotto terra; cercheranno adesso di rosicchiare le fibre vitali della civiltà in tutti i paesi e assaliranno come un morbo gli organi interni della società. Fra gli italiani vedo soltanto il coraggio per azioni violente; da nessuna parte il coraggio di credere in un grande ideale morale. Sanno demolire, ma la costruzione nuova è impensabile senza a forza morale del popolo.
Roma, 31 dicembre
Quest’anno sospinge verso il nuovo anno una ondata di lotte non risolte. La guerra in Francia, che si è trasformata in una guerra razziale, perdura ancora o si agita in un grande cerchio di fuoco intorno a Parigi. Questa città patisce la sua sorte come per una sentenza penale abbattutasi su di essa, simile alla Roma del 1527; ma finora la sopporta con coraggio; vi si scorgono germogli di rinascita in mezzo ad una immane corruzione di costumi. […]
Il 28 il Tevere è straripato con tremenda violenza, sommergendo mezza Roma. La piena è salita improvvisamente alle cinque di mattina e presto ha ricoperto il Corso, giungendo attraverso la Via del Babuino, fino a Piazza di Spagna. Dal 1805 nessuna inondazione del Tevere aveva raggiunto una simile altezza. Il ghetto, la Lungara, la Ripetta hanno sofferto parecchio. I danni ammontano a molti milioni. Singolare l’aspetto delle strade, dove vi si aggirano barche, come a Venezia; i lampioni e i lumi gettano sull’acqua riflessi ampi e brillanti. Dalle case grida disperate che richiedono il pane. Per la prima volta la nuova guardia nazionale si è distinta in operazioni di pratico soccorso. L’ordine mantenuto era esemplare. I preti hanno subito urlato che questa era la mano di Dio e l’effetto della scomunica papale. Ma che cosa ne avrà pensato il Papa in Vaticano? Egli ha scongiurato una marea più furente sopra di Roma; rassomiglia all’apprendista stregone che non riesce più a domare le acque.
Stamattina è venuto il re. Cronache medievali narrano spesso di draghi acquatici gettati a Roma dalle inondazioni del Tevere; la grande balena è stata questa volta Vittorio Emanuele. Ha messo Roma in un’agitazione febbrile. Ancora allagata, la città si copre di tricolori. Il sovrano è sceso al Quirinale. A mezzogiorno ha percorso le strade, Lamarmora accanto a lui. Il popolo, in grandi masse, si muove in su ed in giù. Nel Quirinale Vittorio Emanuele ha firmato il suo primo decreto, l’accettazione del plebiscito. Già stasera ritorna a Firenze. Che singolare chiusura d’anno è per Roma questa apparizione del re dell’Italia unita! Con essa si conclude il medio evo.
Nota. Edmondo De Amicis nel settembre 1870 entrò a Roma come ufficiale dell’esercito e giornalista militare. Non aveva ancora compiuto 24 anni, né aveva scritto Cuore (sarebbe uscito nel 1886), ma era già celebre per i suoi Bozzetti di vita militare, usciti a partire dal 1867 sull’Italia militare, organo ufficiale del Ministero della Guerra, e dal 1868 raccolti in volume con enorme successo. Al Campidoglio vede una scena di quel Quarantotto a cui non aveva potuto partecipare per ragioni anagrafiche: tumulto di popolo, donne con coccarde, barricate, inni patriottici, suono di campane, sventolare di fazzoletti dalle finestre, uomini che piangono per la commozione, il tutto però sotto la regia di ufficiali dei Bersaglieri che agiscono in nome di re Vittorio.
La sua cronaca dell’ingresso dell’esercito italiano a Roma uscì in due articoli pubblicati sullo stesso numero dell’Italia militare il 24 settembre 1870; qui citiamo dall’edizione Edmondo De Amicis, [L’entrata delle truppe in Roma], in Giornalismo italiano, I, 1860-1901, a cura e con un saggio introduttivo di Franco Contorbia, Mondadori, Milano 2007, pp. 458-474 (i brani che abbiamo scelto pp. 463-467), con una nota sulla storia editoriale dei testi.
La riproduzione della stampa dei bersaglieri e del tricolore in Campidoglio si trova nella raccolta di documenti La breccia di Porta Pia, Bompiani (collana Documenti per la ricerca storica, 4), Milano 1970.
Lo studioso di storia prussiano Ferdinand Gregorovius era più vecchio di una generazione rispetto a De Amicis, lui aveva vissuto il Quarantotto in Germania quando aveva 26-27 anni, e lo aveva seguito come giornalista liberale. Si trasferì a Roma nel 1852 e poco dopo intraprese gli studi per la sua Geschichte der Stadt Rom im Mittelalter, uscita in 8 volumi tra il 1859 e il 1872 (che ebbe poi varie edizioni anche in italiano, l’ultima nel 1973, per Einaudi, con la traduzione di Andrea Casalegno).
Nel 1870 il suo lavoro era quasi ultimato, stava licenziando il volume 7. Ai primi di luglio lascia Roma per risalire lentamente verso la Germania (tappe ad Arezzo e Firenze per archivi e biblioteche). Da lì seguirà le vicende della guerra franco-prussiana, con entusiasmo patriottico e reminiscenze del Quarantotto. È a Stoccarda, il 23 settembre, che annota sul diario la notizia da Roma: “Il 20 settembre alle undici di mattina gli italiani sono entrati a Roma. In altre circostanze questo avvenimento avrebbe commosso il mondo, oggi non è che un piccolo episodio del grande dramma universale”.
Rientra a Roma il 17 ottobre. Nelle sue note ribadisce che la Presa di Porta Pia è stata resa possibile solo dalla vittoria di Guglielmo I nella guerra appena conclusa contro la Francia di Napoleone III. Trova il papa “circondato da gesuiti e da fanatici” (Gregorovius è luterano) che ha scomunicato gli invasori, e un irresoluto re d’Italia che arriva a Roma in giornata e ritorna la sera stessa a Firenze, non sapendo dove alloggiare: con quella data finiva il Medioevo e con esso il fascino di Roma.
Le sue pagine di diario sono tratte dall’edizione Ferdinand Gregorovius, Diari romani 1852-1874, trad. di Edita T. Imperatori, Franco Spinosi Editore, Roma 1969, pp. 514-523.
Il 20 settembre è stato celebrato ufficialmente, come festa nazionale, solo per pochi anni. Istituita nel 1895 da Francesco Crispi, fu abrogata nel 1930, dopo la firma dei Patti lateranensi. Il regime fascista dirottò l’attenzione su una sorta di festa del bersagliere: un monumento collocato più o meno all’altezza della breccia [http://www.sovraintendenzaroma.it/i_luoghi/roma_medioevale_e_moderna/monumenti/monumento_al_bersagliere] sarebbe stato inaugurato nel 1932 insieme alla nuova sede del Museo storico dei Bersaglieri, all’interno di Porta Pia. Come scrive Renata Ago, “Da simbolo «divisivo» di trionfo su una teocrazia oscurantista, la celebrazione della presa di Roma diventava così l’occasione per l’esaltazione «unificatrice» delle virtù eroiche di un reggimento dell’esercito italiano” (Renata Ago, 20 settembre, Breccia di Porta Pia, in Calendario civile. Per una memoria laica, popolare e democratica degli italiani, a cura di Alessandro Portelli, Donzelli, Roma 2017, pp. 217-223, la cit. p. 223).
Il mito proposto dal fascismo riprendeva il ruolo unificante che già De Amicis aveva attribuito nelle sue cronache ai bersaglieri (e prima ancora ai loro ufficiali). Il popolo evocato dal giornalista però non era più partecipe, sia pure in forma subordinata, agli eventi, ma era diventato quello che doveva acclamare dai bordi delle strade il passaggio della fanfara.
(red)