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11 settembre 1973, i padroni oggi hanno massacrato Allende

11/09/2023

In occasione del cinquantesimo anniversario del golpe in Cile, il nostro socio Walter Cocco ha scelto alcuni manifesti veneziani contro il golpe militare e li ha collegati a manifesti cileni dell’epoca per accompagnare visivamente le parole, gli eventi, i conflitti che portarono a quella giornata. Si tratta di manifesti  depositati all'Archivio Comunale di Venezia la Celestia o al Centro di Documentazione della città contemporanea di storiAmestre, come informa l'elenco delle fonti che trovate alla fine di questo testo.

Con l’occasione ricordiamo che il 01/02/2022 è stata pubblicata nel sito una rielaborazione dell’intervista di Feltrin Lorenzo a Rodrigo Díaz, che nel 1974, pochi mesi dopo il golpe di Pinochet, riuscì a scappare dal Cile e a rifugiarsi in Italia. Tuttora residente a Marghera, alla Cita, Rodrigo Díaz è direttore artistico del Festival del Cinema Iibero-Latino Americano di Trieste.

 

Walter Cocco

Un giorno di settembre del 1973 le mura di Marghera si riempirono di un manifesto, stampato dal consiglio di fabbrica Montefibre. Un tazebao scritto in rosso su fondo bianco, una immagine che richiamava uno dei murales che erano stati dipinti in tutto il Cile per la campagna elettorale di Unidad Popular nel 1970 con una poesia del poeta operaio Ferruccio Brugnaro, sì proprio il padre dell’attuale sindaco di Venezia: una delle tante nemesi della storia.

La poesia si intitola I padroni hanno massacrato Allende. Qualche giorno prima, esattamente martedì 11 settembre 1973, l’esercito cileno iniziò il golpe contro il governo di Salvador Allende democraticamente eletto nel 1970. Quel giorno il palazzo presidenziale de La Moneda dove Allende si trovava coi suoi ministri, con i funzionari e gli impiegati che vi lavoravano, con la polizia di stanza nel palazzo e con le sue guardie del corpo, venne bombardato dall’aviazione militare e assediato dall’esercito. Allende non si arrese, si difese fino in fondo e quando capì che non c’era più nulla da fare, negoziò l’evacuazione delle persone presenti, ma lui non si consegnò vivo e riservò l’ultima pallottola per sé stesso.

Come ci ricorda Ken Loach nel suo cortometraggio “Chile 11 Settembre”, il golpe militare condivide il medesimo giorno – martedì 11 settembre – con un altro episodio tragico: ventotto anni più tardi, nel 2001, fu sferrato l’attacco alle torri gemelle di New York1. In quest’ultimo evento fu la popolazione statunitense la vittima, nell’attacco a La Moneda del 1973, il governo statunitense non fu soltanto sodale con i carnefici, ma la CIA ebbe un ruolo determinante nell’organizzazione del golpe che affossò la democrazia cilena.

Le responsabilità nordamericane furono chiare sin da subito, ma la desecretazione (ancora parziale) degli archivi di stato americani, e in particolare il rapporto della commissione Church del Senato degli Stati Uniti – reso pubblico nel 2002 – mostrarono le dirette responsabilità del Presidente Nixon e del segretario di Stato Henry Kissinger2.

In questo tragico evento Kissinger incarna due paradossi: nato nel 1923 in Germania in una famiglia ebrea tedesca che dovette espatriare nel 1938 a causa delle persecuzioni antisemite del regime nazista, cinquant’anni dopo fu direttamente implicato nel golpe cileno che obbligò decine di migliaia di cileni a fuggire dal proprio Paese per evitare le persecuzioni. Secondo paradosso: proprio nel 1973 Kissinger venne insignito del Nobel per la pace3. Un uomo che, nel corso di una riunione alla Casa Bianca nel 1970, non esitò a dichiarare: “Non vedo alcuna ragione per cui dobbiamo sedere ed aspettare di vedere che un Paese diventa marxista soltanto perché il suo popolo è irresponsabile”4.

Ma percorriamo a ritroso – seppur sinteticamente – le condizioni che, prima, hanno portato alla vittoria elettorale il fronte di Unidad Popular e, poi, alla sua caduta per mano militare. In questo percorso ci facciamo accompagnare dalle immagini dei manifesti cileni dell’epoca e da quelli italiani contro il golpe militare cileno conservati nell’Archivio Comunale di Venezia (Celestia) e nel Centro di Documentazione della città contemporanea5.

 

Allende e il governo di Unidad Popular

 

(Premere sulle immagini per ingrandire)

Salvador Allende apparteneva ad una famiglia borghese di tradizione massonica e progressista, lui stesso da giovane si iscrisse alla massoneria, ma ben presto dichiarò che gli ideali della massoneria non potevano essere realizzati in una società capitalistica. Attivista politico sin dagli anni dell’università, nel 1933 divenne un leader del nascente Partito socialista cileno e nel 1938, a trent’anni, divenne ministro della sanità nel governo del radicale Pedro Aguirre Cerda a capo di un fronte popolare6. Il governo durò poco e, pur resistendo ad un tentativo di golpe, venne sconfitto nelle successive elezioni politiche nel 1946.

Da allora Allende perseguì sempre l’obiettivo di unire le forze di sinistra e di realizzare una trasformazione socialista della società per via democratica, convincendo la maggioranza della popolazione con la proposta politica e senza scorciatoie violente. Subì sonore sconfitte come nel 1952, ma nel 1958 il suo Fronte di Azione Popolare venne sconfitto dalla destra di Jorge Alessandri per soli trentamila voti.

La sua idea si stava facendo largo nella società cilena, una società in cui ampie fasce di popolazione vivevano in condizioni di estrema povertà, e le tensioni sociali erano sempre più forti. Se nel 1964 venne sonoramente sconfitto dal democristiano Frei fu anche grazie al massiccio intervento finanziario del governo statunitense a sostegno della Democrazia Cristiana cilena. Ma la spinta al cambiamento che veniva dalla società cilena obbligó lo stesso governo Frei a proporre una prudente riforma agraria e la nazionalizzazione delle industrie estrattive, al tempo tutte nelle mani di compagnie straniere (prevalentemente nordamericane), risarcendo queste ultime. Fu in questo quadro che la Unidad Popular (UP), il nuovo fronte guidato da Allende che univa il Partito Socialista, Il Partito Comunista, il Partito Radicale e il Movimento d’Azione Popolare Unitario (sinistra cristiana) e che aveva il sostegno del sindacato CUT (Central Única de Trabajadores), si presentò alle elezioni del 1970 sostenuta da migliaia di lavoratori e studenti in tutto il paese.

La campagna elettorale si polarizzò nello scontro fra la destra capeggiata da Jorge Alessandri, la Democrazia Cristiana guidata da Tomic e la UP di Salvador Allende. Molti i giovani artisti fra i militanti di UP, fra essi particolarmente famose divennero le Brigadas Ramona Parra che dipinsero coloratissimi murales in tutto il Paese a sostegno della campagna elettorale di Allende. L’idea era di trasmettere in maniera semplice, ma efficace, le parole d’ordine del programma di UP. I dipinti divennero una icona in tutto il Paese e poi in tutto il mondo, specie dopo il sanguinoso golpe del 1973.

Le elezioni presidenziali del 4 settembre 1970 assegnarono la vittoria a Salvador Allende con il 36,3% dei voti, ma l’esito elettorale non fu affatto gradito al governo statunitense e “il 15 settembre, il presidente Nixon informò il direttore della Cia, Richard Helms, che un governo allendista non era accettabile per gli Stati Uniti e ordina alla Cia di svolgere un ruolo diretto nell’organizzare un colpo di Stato in Cile per impedire che Allende sin insediasse alla presidenza”7.

Il primo tentativo fu mettere a disposizione fondi e fare pressioni perché una parte dei deputati democristiani rifiutassero la ratifica parlamentare della vittoria elettorale di Allende votando il secondo eletto Jorge Alessandri (destra) in spregio ad una prassi costituzionale consolidata. Quest’ultimo poi, per evitare una crisi politica, si sarebbe dimesso e avrebbe indetto nuove elezioni puntando ad una alleanza politica fra destra e Democrazia Cristiana. Il leader democristiano Frei tuttavia si oppose all’idea di trasgredire alla tradizione democratica e il “gambetto Frei” abortì8.

Da quel momento l’amministrazione americana puntò all’opzione due, ovvero alla costruzione di una situazione favorevole ad un golpe militare. La prima mossa in questa direzione fu il tentativo di sequestro del comandante delle Forze Armate cilene, generale Scheineder, fedele all’ordine costituzionale. La sua auto venne attaccata da militari cileni e soggetti dell’estrema destra cilena con il supporto logistico e militare di elementi della Cia: l’assalto si concluse con l’uccisione del generale. La seduta plenaria delle Camere che ratificò la nomina presidenziale di Allende avvenne il 24 ottobre 1970, mentre la massima autorità militare stava agonizzando in ospedale.

Inizia così il governo di Unidad Popular, con tensioni interne ed internazionali, ma anche con un forte sostegno popolare; durante i primi mesi la situazione sembra stabilizzarsi ed i dati economici rilevarono una buona crescita. Il governo intendeva accelerare le riforme promesse, in particolare la nazionalizzazione delle industrie estrattive e la riforma agraria. La nazionalizzazione delle miniere di rame, come abbiamo detto, era già iniziata nel corso della presidenza Frei che aveva acquisito il 51% delle azioni dalle società multinazionali, rimaneva da espropriare il rimanente 49%. L’operazione sottoposta al Congresso nel giugno 1971 trovò il consenso unanime anche da parte dei deputati della destra, il problema era il valore dell’indennizzo da corrispondere e Allende decise di non pagare perché le multinazionali, in oltre mezzo secolo di sfruttamento, avevano guadagnato abbastanza9.

Il governo proseguì il suo lavoro anche sul fronte della riforma agraria con l’assegnazione delle terre ai contadini suscitando il malumore dei latifondisti che si videro espropriare i terreni.

Ulteriori tensioni emersero dalla decisione di nazionalizzare la compagnia telefonica controllata al 70% dall’americana ITT. Anche in questo caso le divergenze vertevano sulla diversa valutazione dell’indennizzo da corrispondere: un tentativo di trovare un accordo abortì quando venne alla luce che alcuni dirigenti della ITT erano implicati nella “guerra sporca” contro il governo Allende e che la multinazionale aveva destinato diversi milioni a sostegno delle forze che cospiravano contro il governo in carica. La compagnia telefonica venne nazionalizzata scatenando le ire dell’amministrazione Nixon che impose il blocco dei crediti internazionali nei confronti del Cile.

Il conflitto aperto con le multinazionali, le attività di boicottaggio e le azioni apertamente sediziose di queste nei confronti del governo in carica, furono denunciate da Allende in un discorso che tenne all’Assemblea Generale dell’ONU il 4 dicembre 1972. Allende evidenziò il pericolo che l’attività delle società multinazionali – libere da qualsiasi controllo – rappresentano per le democrazie ed i governi legittimamente eletti a tutte le latitudini. Un discorso che, letto ora dopo aver visto gli effetti della globalizzazione, risulta drammaticamente profetico:

Ci troviamo davanti a un vero scontro frontale tra le grandi corporazioni internazionali e gli Stati. Questi subiscono interferenze nelle decisioni fondamentali, politiche, economiche e militari da parte di organizzazioni mondiali che non dipendono da nessuno Stato. Per le loro attività non rispondono a nessun governo e non sono sottoposte al controllo di nessun parlamento e di nessuna istituzione che rappresenti l’interesse collettivo. In poche parole, la struttura politica del mondo sta per essere sconvolta. Le grandi imprese multinazionali non solo attentano agli interessi dei Paesi in via di sviluppo, ma la loro azione incontrollata e dominatrice agisce anche nei Paesi industrializzati in cui hanno sede. La fiducia in noi stessi, che incrementa la nostra fede nei grandi valori dell’umanità, ci dà la certezza che questi valori dovranno prevalere e non potranno essere distrutti10.

Nel contempo Allende denunciò, davanti al consesso internazionale, il clima di guerra civile che viveva il Cile e il ruolo attivo, da parte di figure di primo piano delle multinazionali e dei ceti industriali cileni, di sostegno e finanziamento nelle azioni eversive contro il governo democraticamente eletto: le serrate delle fabbriche, il blocco delle merci con gli scioperi dei camioneros, gli attentati dell’estrema destra e di settori dell’esercito.

È in questo clima – una società devastata dalla crisi economica e dall’acuirsi della violenza e della polarizzazione della società – che si svolsero le elezioni politiche della primavera del 1973 nelle quali UP aumentò i propri sostenitori arrivando al 43%11. Una parte rilevante della popolazione, nonostante tutto, si strinse attorno al suo Presidente sostenendolo nelle piazze al grido di: Allende, Allende, el pueblo te defiende!

Il cartello della destra con la Democrazia Cristiana vinse le elezioni, ma i seggi conquistati non permettevano di deporre legalmente il Presidente in carica. A quel punto nell’opposizione il fronte golpista divenne egemone in ampi settori delle forze armate.

 

 

 

 

 

 

 

 

Alla fine della primavera del 1973 aumentarono gli attentati ad opera dell’organizzazione di estrema destra Patria y Libertad e un tentativo di golpe militare fallì, ma la situazione si faceva sempre più ingovernabile e le voci di un golpe militare imminente erano sempre più insistenti.

Allende decise, nonostante le resistenze di alcune componenti della coalizione che lo sosteneva, di sottoporre a plebiscito il suo mandato dichiarandosi disposto a lasciare l’incarico in caso non avesse raggiunto il sostegno necessario. L’11 settembre, però, la marina dette inizio al golpe a Valparaiso, poi fu la volta dell’aviazione e dell’esercito, infine il corpo di polizia a difesa del palazzo presidenziale assediò l’edificio.

Divenne chiaro che a capo della rivolta c’erano le massime autorità militari che avevano giurato fedeltà alla costituzione. Queste inviarono una delegazione al Presidente intimandogli di rimettere i poteri nelle mani della giunta militare, in cambio avrebbe avuto a disposizione un aereo per lasciare il Paese assieme alla sua famiglia ed i più stretti collaboratori. In caso contrario il palazzo presidenziale sarebbe stato bombardato. La risposta di Allende fu sprezzante: “ No signori, non mi arrenderò. Dite ai vostri comandanti in capo che non me ne andrò da qui, che non mi consegnerò. Questa è la mia risposta. Non mi tireranno fuori vivo da qui, anche se bombardano la Moneda…”12.

Le emittenti radiofoniche che appoggiavano il governo vennero silenziate dai golpisti ed iniziò il bombardamento del palazzo presidenziale. Fu allora che, alle 9.10, Allende parlò per l’ultima volta al Paese tramite l’ultima emittente ancora in funzione, Radio Magallanes:

“Compatrioti, questa è l'ultima occasione che ho per rivolgermi a voi. L'Aviazione ha bombardato le antenne di radio Portales e radio Corporación. Nelle mie parole non c'è amarezza ma delusione, e saranno queste il castigo morale per coloro che hanno tradito il giuramento che hanno fatto [interferenza]… soldati del Cile, comandanti in capo effettivi, l'ammiraglio Merino che si è autodesignato, più il signor Mendoza, generale vile che solo ieri aveva manifestato la sua fedeltà e lealtà al governo, anche lui si è nominato direttore generale dei carabinieri. Alla luce di questi fatti, non mi resta che dire ai lavoratori: io non rinuncerò! Giunto a un momento storico, pagherò con la vita la lealtà del popolo. E vi dico che ho la certezza che il seme che consegneremo alla degna coscienza di migliaia e migliaia di cileni non potrà essere totalmente distrutto.

Hanno la forza, potranno abbatterci. Ma i processi sociali non si fermano né con il crimine né con la forza. La storia è nostra e la fanno i popoli.

Lavoratori della mia patria, vi voglio ringraziare per la lealtà che avete sempre avuto. La fiducia che avete riposto in un uomo che fu solo interprete di grandi aspirazioni di giustizia. Che si impegnò a rispettare la Costituzione e la legge, e mantenne la parola. In questo momento definitivo, l'ultimo nel quale mi posso rivolgere a voi, desidero che impariate la lezione. Il capitalismo straniero, l'imperialismo, unito alla reazione, creò il clima perché le Forze armate rompessero la loro tradizione, quella insegnata da Schneider e riaffermata dal comandante Araya, vittime della stessa classe sociale che oggi starà a casa sua sperando di riconquistare per mano altrui il potere di continuare a difendere le proprie tenute e i propri privilegi.

Mi rivolgo, soprattutto, all'umile donna della nostra terra, alla contadina che ha creduto in noi, all'operaia che ha lavorato di più, alla madre che ha saputo della nostra preoccupazione per i bambini. Mi rivolgo ai professionisti della patria, ai professionisti patrioti, a quelli che alcuni giorni fa hanno lavorato contro la sedizione promossa dai collegi professionali, collegi di classe perché difendono i vantaggi che una società capitalista concede solo a pochi. Mi rivolgo alla gioventù, a quelli che hanno cantato e trasmesso la loro allegria e il loro spirito di lotta. Mi rivolgo all'uomo del Cile, all'operaio, al contadino, all'intellettuale, a quelli che saranno perseguitati… perché nel nostro Paese il fascismo era già da tempo presente, negli attentati terroristici, facendo saltare in aria i ponti, tagliando le linee ferroviarie, distruggendo gli oleodotti e i gasdotti, con il silenzio di coloro che avevano l'obbligo di intervenire: ma erano coinvolti. La storia li giudicherà.

Sicuramente radio Magallanes sarà messa a tacere, e la mia tranquilla voce metallica non vi arriverà. Non importa. Continuerete a sentirla. Sarò sempre con voi. Perlomeno il ricordo di me sarà quello di un uomo degno che è stato leale alla lealtà dei lavoratori.

Il popolo deve difendersi, ma non sacrificarsi. Il popolo non deve lasciarsi abbattere o crivellare, ma non può neanche farsi umiliare.

Lavoratori della mia patria, ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro, in cui il tradimento ha la pretesa di imporsi. Continuate a esser certi che, più presto che tardi, riapriranno le grandi strade per le quali passerà l'uomo libero, per costruire una società migliore.

Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori! Queste sono le mie ultime parole e sono certo che il mio sacrificio non sarà inutile. Sono certo che, perlomeno, sarà una lezione morale che castigherà la slealtà, la vigliaccheria e il tradimento”13.

Come sopra ricordato, quando si rese conto che non c’era più nulla da fare, Allende negoziò l’uscita delle persone presenti all’interno del palazzo, ma lui non si consegnò preferendo morire da uomo libero e da Presidente in carica.

Nel Paese i militari iniziarono una feroce repressione, per chi era abbastanza adulto nel 1973 le immagini televisive delle migliaia di persone imprigionate nello stadio di Santiago sono un ricordo indelebile. Poi iniziarono ad arrivare i resoconti delle morti eccellenti, delle persone portate via dalle proprie case di notte e mai più tornate, delle carovane della morte e infine dei voli della morte con cui migliaia di oppositori furono lanciati dagli aerei in mare e scomparvero. E ancora le decine di migliaia di esuli che riuscirono a sfuggire alle torture e alla morte abbandonando il proprio paese. In molti trovarono rifugio in Europa.

Molti trovarono rifugio e solidarietà nel nostro Paese, uno di questi Rodrigo Díaz si stabilì a Marghera nel 1976 e la sua testimonianza è stata pubblicata da storiAmestre14.

Nei giorni del golpe il gruppo musicale degli Inti Illimani, un gruppo molto legato a Unidad Popular, era in tounée in Italia; i suoi componenti chiesero ed ottennero asilo politico e rimasero in Italia per tutta la durata della dittatura. Le loro canzoni divennero sia la testimonianza dei sogni, delle speranze di Unidad Popular e della figura di Allende che la denuncia dei massacri perpetrati dalla giunta di Pinochet. È per me indimenticabile, allora adolescente che mi affacciavo alla politica, il grande concerto all’arena di Verona del settembre 1975, un vero e proprio battesimo alla militanza.

Il golpe ebbe drammatiche conseguenze non solo sulla vita di molti cileni, ma anche sugli equilibri internazionali: basti ricordare che l’Argentina seguì la stessa sorte agli inizi del 1976, confermando una tendenza dell’amministrazione statunitense a favorire l’instaurazione di regimi reazionari e violenti. Per quanto riguarda l’Europa e in particolare l’Italia, i fatti del Cile influenzarono pesantemente le scelte politiche della sinistra. Il segretario del PCI, Enrico Berlinguer, scrisse tre articoli sulla rivista Rinascita fra la fine di settembre e i primi di ottobre 197315 nei quali indicava che l’esperienza cilena insegnava che nessun cambiamento sociale sarebbe stato possibile senza l’accordo fra le grandi forze popolari e democratiche, lanciando così la politica del “compromesso storico”.

Al di là del giudizio storico che si può dare su quella scelta politica, non vi è dubbio che essa abbia segnato – nel bene e nel male – il dibattito politico all’interno della sinistra italiana per tutta la decade degli anni Settanta, generando dirette conseguenze sugli equilibri politici italiani ed europei con la crescita dell’opzione eurocomunista in Francia e Spagna.

Per quanto riguarda la mia generazione, che in quegli anni si affacciava all’impegno politico, fu occasione per apprendere i primi rudimenti di spagnolo con i testi delle canzoni degli Inti Illimani. Cantavamo El pueblo unido jamás será vencido e – forse incoscientemente – interiorizzammo che il nostro sogno di una società più giusta stava morendo nelle immagini dello stadio di Santiago piene di giovani poco più grandi che in molti casi furono desaparecidos.

In conclusione alcuni manifesti in sostegno della causa cilena e, in particolare, quello disegnato da Emilio Vedova, in omaggio a Salvador Allende e Pablo Neruda.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FONTI CITATE O PRESENTI NELL’ARTICOLO

A) MANIFESTI

I manifesti presentati nell’articolo sono stati digitalizzati e raccolti nel CD-Rom Affissione Consentita 40 anni di manifesti dall’Italia e dal mondo pubblicato nel 2007 da storiAmestre, gli originali sono depositati negli archivi sotto descritti. In ordine di apparizione:

  1. I padroni oggi hanno massacrato Allende. Poesia di Ferruccio Brugnaro, Consiglio di fabbrica Montefibre, Serigrafato in proprio Sip- San Polo 2416 – Venezia, 1973, Archivio Giorgio Sarto – Centro di Documentazione della città contemporanea;

  2. I.C. Izquierda Cristiana a la CUT!!, Manifesto cileno: sinistra cristiana, Tip. Quimandù lida, 1971, Archivio Comunale di Venezia la Celestia;

  3. Brigadas Ramona Parra Museo de Arte Contemporaneo, Manifesto cileno: gioventù comunista museo di arte contemporanea, 1971, Archivio Comunale di Venezia la Celestia;

  4. Cobre Chileno, Manifesto cileno: nazionalizzazione del rame cileno, Litografia Fernandez, 1972, Archivio Comunale di Venezia la Celestia;

  5. No a la sedicion, Manifesto cileno: contro la violenza, 1971, Archivio Comunale di Venezia la Celestia;

  6. No a la guerra civil, Manifesto cileno: Contro la guerra civile, 1972, Archivio Comunale di Venezia la Celestia;

  7. Per la resistenza cilena, Manifesto Organizzazione comunista m-l, Tip. Fronte unito, 1973, Archivio Giorgio Sarto – Centro di Documentazione della città contemporanea;

  8. Chi brucia i libri tortura il popolo. Libertà al Cile, Manifesto Biennale di Venezia, Tip. ENIT, 1974, Archivio Maurizio Antonello – Centro di Documentazione della città contemporanea;

  9. Neruda Allende, Manifesto Biennale di Venezia, Omaggio del pittore Emilio Vedova a Salvador Allende e Pablo Neruda, 1974, Archivio Maurizio Antonello – Centro di Documentazione della città contemporanea;

B) FILMATI/REGISTRAZIONI AUDIO

  • Ken Loach, September,11 1973, cortometraggio realizzato nel 2002 nell’anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle e nel 29 anniversario del golpe cileno, reperibile in rete in vari siti, anche in italiano, ultima visione 30/07/2023 https://archive.org/details/CileLaStrageDiPinochet .

  • Patricio Guzmán, Salvador Allende, film in dvd, Ed. Feltrinelli, 2006;

  • Discorso di Salvador Allende all’ONU (1972), cfr. youtube https://www.youtube.com/watch?v=1E9_wnzkZgI;

  • Salvador Allende – Ultimo Discurso (Radio Magallanes 11/9/1973) – registrazione radiofonica dell’ultimo discorso di Salvador Allende, cfr. youtube https://www.youtube.com/watch?v=EC4gSxMzzpQ;

C) TESTI

  • Verdugo Patricia, Salvador Allende. Anatomia di un complotto organizzato dalla Cia, Baldini Castoldi Dalai Ed., Milano, 2003;

  • Cover Action in Chile: 1963 – 1973, Report Church Committee, Washington, 1975;

  • Biacchessi Daniele et al., Cile 11 settembre 1973, F. Angeli Ed., Milano, 2003;

  • Berlinguer Enrico, Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile, 3 articoli pubblicati su Rinascita rispettivamente nel n. 38 del 28/09/73 (Imperialismo e coesistenza alla luce dei fatti cileni), n. 39 del 5/10/73 (Via democratica e violenza reazionaria) e n. 40 del 12/10/73 (Alleanze sociali e schieramenti politici);

  • Feltrin Lorenzo, Da San Miguel alla Cita. Intervista a Rodrigo Díaz, esule cileno in Italia dal 1974 e residente a Marghera dal 1976 pubblicata il 01/02/2022, https://storiamestre.it/2022/02/santiago-marghera/

 

NOTE

1 Loach Ken, September,11 1973, cortometraggio realizzato nel 2002 nell’anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle e nel 29 anniversario del golpe cileno, reperibile in rete in vari siti, anche in italiano, ultima visione 30/07/2023 https://archive.org/details/CileLaStrageDiPinochet . Il cortometraggio parla di Pablo, un profugo cileno che vive a Londra, che nel primo anniversario dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York, scrive ai famigliari delle vittime per esprimere la sua vicinanza al loro dolore e per raccontare loro quanto accadde in Cile il martedì 11 settembre di 29 anni prima.

2 Cover Action in Chile: 1963 – 1973, Report Church Committee, Washington 1975. Per una attenta guida alla lettura di questo documento e dei documenti desecretati dall’amministrazione statunitense sull’argomento si veda Verdugo Patricia, Salvador Allende. Anatomia di un complotto organizzato dalla Cia, Baldini Castoldi Dalai Ed., Milano, 2003.

3 Dopo la desecretazione, seppur parziale, disposta dal presidente Clinton degli archivi delle diverse agenzie sulla questione cilena che hanno portato alla luce le responsabilità di Nixon e di Kissinger nel golpe cileno è iniziata una campagna per il ritiro del premio Nobel per la pace concesso a Kissinger il 16 ottobre 1973, a poco più di un mese dalla morte di Allende.

4 Verdugo, op. cit. p. 56.

5 Tutti i manifesti qui riprodotti sono stati digitalizzati e raccolti nel CD Rom Affissione Consentita 40 anni di manifesti dall’Italia e dal Mondo, edito da storiAmestre nel 2007.

6 La parola d’ordine di Pedro Aguirre Cerda fu Pane, tetto e cappotto; sostenuto da un fronte popolare si insediò a La Moneda nel 1938. L’esperienza dell’unità delle sinistre durò soltanto tre anni, tuttavia seppe resistere ad un tentativo di colpo di stato militare intentato dall’ex dittatore generale Ibanez, golpe noto come ariostazo, dal nome del generale che si pose alla guida dei ribelli Ariosto Herrera. Nel corso del golpe i militari offrirono al Presidente una via di fuga, ma questi rispose: “Il Presidente della Repubblica non si sottomette ad un ribelle. Di qui non mi tireranno fuori se non morto. Il mio dovere è di morire difendendo il mandato affidatomi dal popolo”. L’11 settembre 1973 Allende rifiutò, con parole non molto diverse, una analoga proposta fatta dai militari golpisti. (cfr. Verdugo, op. cit., p. 184 – 185 ).

7 Rapporto Church cit. in Verdugo, op. cit. p. 63.

8 L’operazione venne denominata “gambetto Frei”. “Nel gioco degli scacchi, gambetto è la tattica di sacrificare uno o due pezzi all’inizio per guadagnare poi una posizione favorevole”., cfr. Verdugo, op. cit. p. 67.

9 Verdugo, op. cit. p. 103.

10 Cfr. film di Patricio Guzmán, Salvador Allende, dvd, Ed. Feltrinelli, 2004. Il discorso è reperibile anche su Youtube Discorso di Salvador Allende all’ONU (1972).

11 Le elezioni parlamentari del 4 marzo 1973, svoltesi in un clima di forti tensioni, videro affermarsi l’allenza Code (Partito democristiano e Partito Nazionale di destra) con il sostegno finanziario diretto ed indiretto degli Stati Uniti. L’alleanza raggiunse il 55% dei voti, ma non si tradusse in un numero sufficiente di deputati e senatori per approvare la destituzione legale del presidente. D’altro canto, uno scontro così duro e polarizzato aveva fatto crescere i consensi a Unidad Popular al 43% (cfr. Verdugo, op. cit., p. 128).

12 Verdugo, op. cit., p. 184. Secondo alcune testimonianze, prima dell’incontro con gli addetti militari, la proposta era stata fatta telefonicamente dall’ammiraglio Carvajal e Allende rispose in maniera secca: “Ma cosa avete creduto, traditori merda! …. Mettetevelo nel culo il vostro aereo! – Lei sta parlando con il Presidente della Repubblica!… E il Presidente eletto dal popolo non si arrende!” (cfr. Verdugo, op. cit., p. 183).

13 Verdugo, op.cit., pp. 186 e segg.

14 Feltrin Lorenzo, Da San Miguel alla Cita. Intervista a Rodrigo Díaz, esule cileno in Italia dal 1974 e residente a Marghera dal 1976 pubblicata il 01/02/2022, https://storiamestre.it/2022/02/santiago-marghera/.

15 Gli articoli con il titolo generale di Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile furono pubblicati rispettivamente nel n. 38 del 28/09/73 (Imperialismo e coesistenza alla luce dei fatti cileni), n. 39 del 5/10/73 (Via democratica e violenza reazionaria) e n. 40 del 12/10/73 (Alleanze sociali e schieramenti politici).

Archiviato in:Centro documentazione città contemporanea, Lorenzo Feltrin, Walter Cocco Contrassegnato con: 11 settembre 1973, Cile

L’avventura di Liber-alo: un gruppo di donne si incontra in città.

01/09/2023

Le città da sempre sono luoghi di incontro ma anche di scontro. In questi tempi il rischio dello scontro o del reciproco isolamento tra persone di culture differenti è molto presente soprattutto se nulla si fa per mettere in comunicazione tra loro i diversi gruppi sociali che compongono il tessuto cittadino. Qualche decennio dopo ci penserà la storia a rileggere i fenomeni per mettere a fuoco dinamiche e significati tra micro e macro storia.

Nello stile di ricerca che da sempre caratterizza storiAmestre, ovvero “l’andare a vedere” e quindi il cercare di leggere e comprendere i cambiamenti che attraversano la città nel mentre avvengono, lo scritto che segue è il frutto di un incontro tra donne: alcune che cercano di aprirsi strade di autonomia in città e altre, radicate da tempo, che provano ad avvicinarsi, a intrecciare pensieri conoscitivi comuni.

La prima parte riporta un’intervista fatta dal gruppo di ricerca di sAm Voci fuori luogo al gruppo Liber-alo durante un incontro, mentre la seconda deriva dal lavoro di rielaborazione e riflessione che alcuni componenti del gruppo Voci fuori luogo hanno intrapreso proprio per approfondire la ricerca e la conoscenza sui temi e problemi che l’incontro ha generato. Percorso conoscitivo che se da un lato aiuta a conoscere gli attuali “vicini di casa”, dall’altro evidenzia assonanze e differenze con se stessi e la propria storia individuale e collettiva. Emerge come in culture diverse vi siano tracciati esperienziali comuni, modi di fare e stare, che seppur collocati in momenti differenti della storia personale di ciascuno e della storia collettiva generale, vengono utilizzati in modo analogo.

Crediamo che questo “andare a vedere”, mettendo in comunicazione la propria storia personale e culturale con quella di coloro che si incontrano, possa aiutare a comprendere l’oggi e a far sì che le realtà urbane siano davvero luoghi di scambio e confronto e sempre meno terreno di scontro, rifiuto e isolamento.

 

Dove va il vento

Intervista al gruppo Liber-alo

 

Giovanna:« Mi piacerebbe capire come è sorto questo gruppo e ognuna di voi perché viene qui, che difficoltà incontra e qual è la cosa per cui le piace venire qui».

Hasna parla con Sazia in bangladesci poi traduce:

« Lei vede che ho voglia di creare questo gruppo, ho voglia di creare tantissime cose. Lei da sola non ce la fa a realizzare il suo sogno, quindi lei viene, partecipa per fare una cosa insieme e imparare tantissime cose».

Hasna prosegue:

« Io vorrei dire da dove nasce questa idea per il gruppo. Vivo da venti anni in Italia, da 19 anni a Mestre-Venezia. Per me l’integrazione non è stata facile, l’inserimento per me è stato molto complesso, non sapevo neanche che esistesse un corso di italiano, il Centro donna, vari servizi. Io ho conosciuto tutto dopo, ma in quel momento di inserimento in Italia, facevo fatica e tutto questo percorso [l’ho] fatto da sola. Sentivo una mancanza di consapevolezza, mancanza di informazione. Mi rendevo conto che forse ci sono i servizi, forse ci sono spazi per le donne, ma solo dopo ho imparato, ho conosciuto piano piano, non c’era nessuno che mi dava informazioni.

Anche prima di cominciare a lavorare come mediatrice linguistico culturale conoscevo alcuni bangladesci e anche loro avevano questa esigenza di conoscere vari servizi, avevano tantissime difficoltà a esprimersi, a sapere e avere consapevolezza di dove poter andare se c’è un problema. Non sapendo soffrivamo entrambi. La mia sofferenza mi ha aiutato a capire che forse sarebbe meglio trovare qualche spazio per noi, per dare informazione e aiutare altre persone che hanno stesso bisogno che ho avuto io. Questa cosa l’ho coltivata anni fa, poi piano piano ho cominciato a lavorare come mediatrice, ho incontrato tantissime famiglie in tutti questi anni, conosciuto anche da vicino i loro problemi, le loro esigenze, bisogni e vulnerabilità».

Giovanna: « Per quanti anni hai fatto la mediatrice?»

Hasna: « Questo è il tredicesimo anno. Nell’arco di questi anni è cambiata la società, cambiati un po' i servizi, i corsi, le modalità. Noi mediatrici portavamo le difficoltà delle famiglie bangladesci, delle donne.

Molte cose sono cambiate: ci sono tantissimi corsi e [possibilità di] integrazione, alla voce aiutare stranieri. Ma alla fine vedo che manca qualcosa…Provo a spiegare: una donna viene conosciuta come un’utente…: io sono operatore, tu sei utente. Tu mi comunichi, mi dici, racconti, io ti aiuto. Quello che racconti è un tuo problema. In questo modo di fare vedo che c’è uno spazio vuoto che non si riesce a esprimere con lingua italiana. Io riesco a esprimermi abbastanza bene italiano, però quando incontro una donna bangladesci [ e parlo con lei nella nostra lingua], esce tutta un’altra cosa.

Un altro punto: quando organizzano un corso dicono: dalle nove a mezzogiorno impariamo italiano, ma c’è un obiettivo e si devono rispettare le regole. Quindi io ho cominciato a pensare che forse servirebbe uno spazio dove non ci sono regole, dove queste donne verranno a parlare per stare insieme, condividere loro gioia, dolore, felicità o problemi. Non necessariamente una deve venire e raccontare tutto, può anche solo ascoltare, uno spazio libero dove la donna può venire con i bambini, senza il marito: questa è un’idea per le donne. Donne che possono venire con i bambini, perché una mamma, io penso, non può mai stare felice avendo pensiero per suo figlio. Io avevo questo pensiero: di dare una possibilità per i bambini e lasciare questo spazio per le donne. Io credo che ogni donna ha una risorsa dentro, una luce, penso che questa luce nemmeno loro la conoscono… non sanno di avere qualche capacità, qualche potenza. Pochissime donne conoscono questo essere risorsa per la società…[solo] la famiglia dà valore.

Io attraverso questa idea di fare laboratorio, di fare qualcosa insieme, voglio mostrare loro che dentro hanno una capacità, una competenza: voi sapete fare meglio quelle cose, tiratevi fuori. E sto aiutando a tirare fuori loro capacità. Dico sempre che nostro gruppo si chiama Liber-alo. Alo per noi significa luce, quindi libera la tua luce, porta fuori. Io sto aiutando le donne a portare fuori questa luce, questa competenza, questa capacità».

 

Incontro tra il gruppo Liber-alo e il gruppo Voci fuori luogo. 27 maggio 2023

Giovanna: « Quello che mi ha colpito del gruppo è che vi siate organizzate autonomamente.  Incontri organizzati da altri per chi poi vi partecipa forse non funzionano proprio per quello che dici tu: se vi organizzate autonomamente tirate fuori le vostre cose, la vostra luce».

Hasna: « Sì, non lo si può fare sotto di qualcuno che comanda, dà le regole. Questa idea nasce così: un progetto senza progetto, senza stabilire cosa facciamo, come facciamo, no! Insieme! Credo, ho fiducia di fare qualcosa insieme. Ho fiducia sulle donne, c’è qualcosa dentro ognuna, ogni donna è nata con qualche risorsa. Io credo in questa capacità. Magari lei ha tantissime capacità, io ne ho una. Un’altra donna ha capacità di pazienza. Io non ce l’ho, ma lei ce l’ha. Non solo devo saper fare, devo saper essere! Tutte e due le cose».

Giovanna: « E Sazia e Nafisa, perché viene Nafisa?»

Nafisa parla in bangladesci e Hasna traduce:

« Quando era piccola, aveva questo sogno di poter fare qualcosa, viene al gruppo non solo per lei, anche per gli altri: aiutare persone che hanno bisogno, anziani, bambini, persone deboli, vulnerabili. Così lei, quando ha conosciuto questo gruppo, quando lei è venuta il primo giorno, lei è scoppiata di gioia, perché ha detto: finalmente ho trovato quel spazio dove posso realizzare mio sogno. Lei dice, questo non è un gruppo, è come una famiglia per lei, lei sta bene, si sente felice di venire qua per poter fare qualcosa e mostrare quello che sa fare».

Giovanna: « E Sazia, cosa dice?»

Arriva il marito di Sazia, ma resta fuori e osserva dal vetro.

Hasna: « Io non voglio mettere in imbarazzo le donne, anche i mariti sono benvenuti. Alcuni uomini pensano: ma chissà cosa sta facendo? Perché questo è forse il primo esperimento che sto facendo come una donna immigrata autonomamente, senza un supporto, anche un aiuto. Ma ringrazio tanto soprattutto il gruppo di lavoro di via Piave che mi ha dato questo spazio. Avevo questa idea da tantissimi anni e ho chiesto a tantissime persone. Tanti aiutano, fanno, ma mi dispiace, nessuno ha voluto aiutarmi, nessuno ha trovato modo. [Dicevano] ah sì, bella idea, però nessuno mi ha aiutato. Solo il gruppo di via Piave mi ha detto: va bene. Palma e Fabio».

Giovanna: « Capisco, ecco, magari, Sazia, cosa ti piace di più del venire qua?»

Dialogo in bangladesci tra Sazia e Hasna che traduce:

« Sta dicendo che lei ha saputo di questo gruppo, lei viene per stare insieme, qui riesce a comunicare, parlare e conoscere nuove persone. Sta bene. Un’altra cosa dice: questa risorsa che stiamo dicendo, questa luce che ognuna ha dentro è la possibilità di dimostrare che io sono capace, che ho una luce dentro. Quindi questo [è] stare insieme. Ormai tutti sanno che questo l’ho creato io, lei lo vede positivo e quindi viene qua per stare con le altre».

Il marito di Sazia entra e saluta. Breve dialogo tra di loro in bangladesci, ridono.

Anna: « Hasna avrà detto: perché non ti fermi qua? »

Giovanna: « Sperava che lui venisse con le brioches!»

Ridiamo anche noi.

Hasna: « Alla marmellata!»

Il marito: « Non so quante siete».

Hasna: « Prossima volta ti mando un messaggio in whatsapp».

Marito: « Bene, fa piacere, siete poche?»

Hasna: « Due al lavoro, una non so perché non c’è, un’altra non ce la fa perché sta male».

Il marito, rivolto a noi:

« Ma avete capito marito di chi? (si ride) …Io vado al lavoro adesso, ieri sera non l’ho neanche vista. Tornato dal lavoro tardi».

Giovanna: « Volevi vederla».

Marito: « Ho visto, intravisto, ma …Okey, bene, vi saluto».

Anna: « Grazie, ciao».

Hasna: dice qualcosa in bangladesci rivolta al marito che esce.

Giovanna: « Questi disegni che fate, questi ricami, questo modo di ricamare, sono del Bangla? Cos’è tipicamente vostro?»

Hasna: « Io penso che in Bangladesh, 99% delle donne sa fare questa cosa. Adesso c’è la macchina da cucire, ma una volta [solo] ago filo. Abbiamo strettamente contatto con ago filo. Bangladesh adesso sta cambiando, ma è un paese molto caldo. Periodo d’inverno non abbiamo il piumino, [è] come fosse la vostra primavera, 18-20 gradi, 15, qualche zona anche 10, ma solo per una settimana, tre giorni. Le donne utilizzano un sari usato per fare coperte lenzuola. Uniscono due o tre sari, per appesantire, si chiama notsky cata. Una cosa molto famosa in tutto il Bangla, va anche in tutto il mondo».

Giovanna: « Quello che per noi sarebbe un copriletto, per dire».

Hasna: « Un copripiumino… Da noi utilizzano meno lana, le donne hanno imparato qua. Stiamo pensando di dare opportunità a queste donne che sanno fare uncinetto, questo modello che utilizziamo per futuro».

Giovanna: « Ma l’uncinetto non è della vostra tradizione, neanche i ferri?»

Hasna: « No, non essendo freddo».

Anna: « Voi avete cotone e seta?»

Hasna: « Anche, cotone principalmente».

Discutono tra di loro in bangladesci per studiare come riempire un telo.

Hasna: « E’ vuoto, studiamo come fare il prato, le margherite».

Anna: « Posso chiedere una cosa? Tu hai fatto la mediatrice culturale, l’hai fatta con gli adulti o hai anche lavorato con le scuole?»

Hasna: « Io lavoro dappertutto, dal tribunale all’ospedale, reparto neonatale, comune, CSM, qualsiasi ambiente, anche sociale, dappertutto».

Anna: « Quindi hai avuto occasione di conoscere i vari ambienti in cui c’è bisogno di questo tuo intervento, e della scuola che immagine ti sei fatta? Della scuola italiana?»

Hasna: « Io non ho sempre una bella idea della scuola italiana e ti spiego perché. Mia figlia è nata qua, ha tredici anni e mezzo. Ha imparato solo lingua italiana. Ancora lei sente a scuola che lei è una straniera. Sì, mia figlia non parla perfettamente italiano come altri italiani, ma non fa errori grammaticali come me, perché lei è nata italiana, cresciuta qua, è l’unica lingua che parla. Capisce un po' il bengalese ma non lo parla. Ma gli insegnanti fanno sentire che lei è una straniera. Lei subisce questo da parte di insegnanti, che a mia figlia: “Ah, stai migliorando! Sei una straniera. Vieni dal Bangladesh”. Mia figlia piange per questa cosa, non può avere una bella idea».

Maria: « Prima c’erano due bambini, dove sono adesso?»

Hasna: « Andati a casa, perché abitano vicino».

La mamma dei bambini parla ad Hasna in bangladesci

Hasna: « Sono andati a casa da soli. Non abbiamo deciso ancora [ come fare], perché per i bambini serve un altro spazio per poter lavorare liberamente. Non possiamo lasciare da soli i bambini, serve anche baby sitter. Adesso vediamo quante donne [vengono], perché abbiamo cominciato la settimana scorsa».

Giovanna: « Volevo anche chiederti, Hasna, qui vicino c’è la sede del Venice Bangla School, ma quello spazio non va bene, vero?»

Hasna: « E’ una cosa diversa. Non siamo qua per imparare italiano, ma per stare insieme. Poi quello spazio è gestito da un nostro capo di comunità…»

Le donne parlano tra loro in bangladesci, ridono e scherzano.

Giovanna: « Questa esperienza ci piace molto, perché è un’esperienza di libertà femminile».

Hasna: « Vorrei portare questa esperienza anche altrove, non so dove, dove porta il vento».

A questo punto ci mostrano il telo che hanno portato a Giavera del Montello alla festa Ritmi e danze del mondo 2022.

Vai col vento. Telo ricamato collettivamente a Giavera del Montello. 16 luglio 2022

Hasna: « Abbiamo portato questo telo e chiesto a chi arrivava di ricamare un punto. Ci sono tantissimi punti ricamati da tante mani diverse».

Ci mostrano anche le foto della danza che hanno fatto con i vestiti tradizionali bangla.

Giovanna:: « Quand’è successo?»

Hasna: « 16 luglio dell’anno scorso. Eravamo sul palco per ballare, qua abbiamo fatto allenamento. E’ stata una cosa bellissima, tutti sul palco. Donne che portano velo, hanno grande rispetto per religione, ma…»

Anche Sazia e Nafisa parlano di questa esperienza in bangladesci e ci fanno sentire la musica.

Giovanna: « I colori degli abiti sono particolari?»

Hasna: « Sono primaverili, il primo giorno di primavera in Bangladesh festeggiano le donne e si rappresenta il rosso, giallo, verde».

Giovanna: « Mi piacciono la musica, le danze che avete fatto, una ricchezza anche per tutti e tutte… aiuta a star bene in questa città».

Hasna: « Qua, in Italia, Londra, in tutte le parti del mondo, tu quando decidi per un’idea bella, sempre c’è una parte di negazione o di negativo. Io sto affrontando anche questo, so che nella comunità bangla c’è anche questo vento, [questa] spinta. Ma sono decisa, determinata nella mia idea. Non sto facendo male a nessuno. Non è un centro che sto dicendo: donne, dai divorziate dal marito. Donne combattete per qualcosa. Io dico: donne combattete per conoscere voi stesse. Conoscere non fa male. Come io non sto facendo male di nessuno, non ho paura di nessuno».

Giovanna: « Un cambiamento nella cultura, verso maggiore libertà, ma ci dici che è difficile cambiare».

Hasna: « Non viene così semplice, facilmente. Ho imparato la libertà personale [come] donna bangladesci, nessuno mi dice: tu sei libera! Perché mi deve dire qualcuno che sono libera? Sono nata libera. Non è che la libertà si dà un kilo o un etto nel latte, ma libertà la devo sentire. Non è che qualcuno o qualcosa mi porta la libertà. La libertà è mio diritto, mio pensiero. Nessuno mi può obbligare a sentirmi che io non sono libera. Ognuno di noi stiamo coltivando questa idea che siamo liberi. Non utilizziamo male questa libertà, ma per conoscere noi stesse. Altrimenti restiamo sempre nel labirinto di religione, società, cultura, permesso. No, facciamo tutto, ma sapendo che siamo liberi. Dopo viene tutto. Dobbiamo credere in noi stesse, che siamo libere. Manca nella nostra società, nessuno vuole che noi abbiamo consapevolezza di questa libertà. Una lotta con se stessa, non con sparo, con pistole, con carro armato. Una libertà di sentimento».

Giovanna: « Mi viene in mente questa borsa [mostra una borsa di stoffa], l’ha fatta una mia amica, l’ha disegnata, l’ha pensata, però lavora da sola, mentre qui l’idea è lavorare come gruppo, allora mi chiedo: cosa c’è di speciale nel lavorare come gruppo?»

Hasna: « Io penso che a lavorare insieme, non solo conta quello che vedo, ma conta il respiro che sta girando dentro ognuno, lo sguardo, anche il silenzio conta tanto. A noi mancano queste cose, siamo abituate a stare sotto comando di qualcuno, può essere padre, fratello, marito, suocero, suocera o figlio […] come essere senza una identità. Noi donne dobbiamo essere conosciute da qualcosa o da qualcuno».

Maria: « Quando ero bambina, quando passeggiavo, mi chiedevano sempre: di chi sei figlia? Tu esistevi come figlia di. Dopo diventavi: di chi sei moglie? Quando il mondo è diventato più libero: con chi stai?»

Hasna: « Sicuramente quando cammino, tantissime donne che non mi conoscono dicono: Bhabhi, come stai? Non essendo io moglie di nessuno, si può dire cognata. Se non sei moglie devi essere Bhabhi. La società ancora non è così avanzata da poter dire: potrebbe essere non sposata, oppure divorziata oppure vedova. Quindi Bhabhi. La nostra rappresentazione in emigrazione avviene soprattutto attraverso un rapporto, una relazione con qualcosa, con qualcuno. Se io sono anziana, nel senso di 50 anni o mezza età, non lo so, si potrebbe dire zia, nonna. Quindi il riconoscimento avviene attraverso un legame. Perché non posso essere conosciuta con il mio nome? Anche se ti chiami Boudurnessa, si deve dire Bhabhi Boudurnessa, oppure Nafisa Bhabhi.

Però … loro [si rivolge alle altre bangladesci presenti] non mi chiamano Bhabhi, ma sorella, io sono loro sorella ».

Giovanna: « Sorella come si dice?»

Hasna: « Apa».

Giovanna: « Noi Apa… allora .. »

Hasna: « Volete assaggiare tè, biscotti? Noi qui,condividiamo… So che questo cammino sarà difficile, è stato difficile. L’anno scorso avevamo un gruppo, quest’anno stiamo modificando un po’, perché dove c’è conflitto, dove idee non si incrociano, meglio cambiare strada. Sto cambiando strada, dove mi porta il vento vado, perché l’idea è di andare, di non fermarsi. Vado dove mi porta il vento».

Giovanna: « Ma le persone di Giavera dell’anno scorso sono qui?»

Hasna: « Sazia è nuova, …siccome hanno 3-4 bambini, oppure hanno problemi in famiglia, due tre donne sono in Bangladesh, una lavora, una è malata. Due donne hanno avuto un bambino. Nafisa…Stiamo imparando a chiamarci con il nome, non Bhabhi … Hasna».

Prendiamo insieme tè, biscotti e latte. Il tè è buono, ma ha un gusto strano.

Giovanna: « E’ profumato».

Anna: « Avete usato latte in polvere?»

Hasna: « Sì»».

Anna: « Forse è quello il profumo».

Giovanna: « Ci sono spezie?»

Hasna: « No, non mettiamo spezie, non bustine, voi utilizzate bustine, ma lì mettono conservante per conservare lungo tempo, non c’è filtro, da noi vendono [tè] sciolto».

Buono, molto buono prendere il tè insieme chiacchierando.

Il dopo intervista nel gruppo Voci fuori luogo

Il gruppo Voci fuori luogo ha ascoltato la registrazione, letto la trascrizione e ne ha discusso insieme a lungo. Alcuni hanno anche scritto pensieri, ricordi, domande suscitate da quanto emerso nell’incontro con il gruppo Liber-alo, che potete leggere di seguito.

 

Alcune parole chiave

Gianfranco Bonesso

“Tutto questo percorso fatto da sola” Questa frase mi ha fatto pensare che solo una città ricca di occasioni e opportunità permette anche questi percorsi individuali. Aver fatto la mediatrice, aver potuto incontrare famiglie e altre donne, non è una situazione che si può sperimentare facilmente nelle città italiane. Questo non lo dico per valorizzare il lavoro pubblico, ma per evidenziare le giuste dimensioni di un contesto, che pure non limita la cifra insostituibile della carica individuale, che ha favorito la costruzione di reti e la ricerca del tempo liberato.

Alo-luce, libera la tua luce, porta fuori. Tra le parole chiave, mi ha colpito Alo, la luce. Parola ricorrente, magnetica per chi la pronuncia e molto significativa anche per tutto quello che evoca. Luce di volta in volta rappresenta la risorsa creativa, presente nell’ “anima”. Una potenzialità che può essere fatta emergere dalle donne, liberandola. Luce è competenza potenziale. La luce esprime anche la volontà del farla uscire. Una luce che tutte hanno dentro. Anche lo stare insieme liberamente esprime questa luce. E sembra che la luce sia anche sinonimo di cambiamento e di libertà.

Da antropologo mi piacerebbe capire da dove venga questa specifica idea della luce.

Il venire alla luce (nascere) mi sembra un processo molto simile a quello descritto da Hasna. Ma intravedo anche i processi maieutici del trarre la luce dall’allievo.

La luce ricorda sia l'illuminazione del Buddha sia la luce dei testi Sufi indiani e arabi, entrambi fenomeni culturali e religiosi molto vicini al Bengala.

La luce contrapposta alla tenebra è presente in tutte le nostre tradizioni culturali e religiose, cristiane e non, ad esempio gnostiche. È persino fondamento della “religione laica” della razionalità, storicamente rappresentata dall’Illuminismo e dalla filosofia tedesca.

Non so se questa mia reazione sia impregnata di esotismo, in qualche modo rintracciabile nell’Orientalismo, tanto criticato da Edward Wadie Said1. Eppure l’evocazione di questa luce onnipresente mi spinge a cercare lontano.

Il mio nome. Vorrei metterlo in relazione con il termine di parentela che viene dal paese di provenienza. Termine di parentela che è termine anche di rispetto, termine con cui ci si rivolge amichevolmente ad uno sconosciuto facendolo entrare con una parola nella cerchia della famiglia. La questione è il recupero del nome individuale, ma anche il rifiuto dei termini di parentela che vengono dal paese di origine.

Hasna non vuole essere chiamata Bhabhi (la cognata, o meglio la moglie del fratello maggiore nella terminologia dell’India settentrionale). E’ un termine di rispetto, che fa appartenere la persona a cui ci si rivolge soprattutto alla classe di età del fratello più grande, ma indirettamente definisce anche il suo status come sposata. Ma Hasna si ribella, perché devo essere definita sposata? Perché non essere chiamata solo col mio nome? Questa è una rottura con i sistemi di onore, di classificazione e di rispetto di un gruppo e con tutto quello che implicitamente veicolano.

Poi c’è un passaggio in cui lei dice, che comunque loro la chiamano “sorella” e non Bhabhi, ma Apa2.

Libertà. Un’altra parola chiave, interessante per come è considerata, la libertà.

Una libertà delle donne, prima di tutto.

Una libertà che si deve sentire.

Una libertà che non viene da fuori, nessuno ti libera.

Una libertà che è consapevolezza, che come la luce viene da dentro di sé.

Una libertà che è credere in se stesse.

Una libertà di sentimento.

Una libertà per cui si lotta prima di tutto con se stesse.

Una libertà che non vuole troppe regole (per esempio del gruppo: tempi, modi, ecc.).

Una libertà che non vuole custodi, neanche se sono i familiari.

Una libertà che si sente nel respiro, nell’aria intorno.

Credo che questo senso di libertà l’abbiamo provato in particolare noi, quelli e quelle della mia generazione, alla fine degli anni ‘60 e tutti gli anni ‘70. Probabilmente in maniera diversa tra maschi e femmine, ma sicuramente in modalità che riguardavano le parti sociali e politiche, ma anche quelle emozionali e le regole di vita.

 

Pensieri per ridurre la distanza

Maria Giovanna Lazzarin

Accanto a tante differenze mi pare che emergano, in questo incontro tra noi, tanti sentimenti, esperienze, pensieri in cui ci ritroviamo. Ascoltare questa registrazione mi ha emozionato e fatto tornare a quando avevo Giacomo piccolo, un anno, due anni, 1977-78. Lavoravo come insegnante e mi piaceva incontrarmi con un gruppo di insegnanti del MCE (Movimento di Cooperazione Educativa). Mi aiutava a conoscermi, come dice Hasna, a trovare delle risorse anche per il mio lavoro, mi appassionava. Ma ero sempre sulle spine. Per sentire che potevo andare al gruppo dovevo prima sistemar casa, preparar cena. Far tardi mi metteva in ansia. Mia mamma era casalinga, tutta la sua vita erano i figli, il marito. Io venivo da quella tradizione, le volevo molto bene, non era facile cambiare.

L’idea di far emergere la propria voce mi fa pensare anche ai collettivi femministi degli anni 70 in cui si cercava la propria voce3. Non a caso anche il gruppo Liberalo sorge come gruppo di sole donne che vogliono parlare liberamente senza vincoli né di tempo né di ingerenze maschili.Vedo questa radicalità soprattutto in Hasna, vedo la voglia di trovare la propria voce, la propria energia, il proprio valore, il proprio sogno, in una parola, la propria luce.

Ma c’è qualcosa di diverso rispetto ai nostri collettivi degli anni Settanta. Nell’intervista Hasna presenta la forte unione familiare, il senso del noi, presente in Bangladesh e da cui provengono. Ma una volta arrivate qui, queste donne hanno trovato anche un’altra dimensione, quella del valore personale e individuale della libertà. In Europa è una storia iniziata almeno due secoli fa, da quando inizia la lotta per il voto alle donne, dalle suffragette, dal primo femminismo. Mi colpisce che il discorso possa essere simile, che ci si possa subito intendere e capire, penso però che nel passaggio dal Bangladesh all’Italia queste donne si trovano a fare o a dover fare, dentro se stesse, un gran salto personale. Mi chiedo quanto questo processo sia in atto in Bangladesh e come lo stanno vivendo queste giovani donne che si inseriscono in un contesto in cui l’individualismo è accentuato.

Alain Touraine e i suoi collaboratori in Francia agli inizi 2000 hanno chiesto a un gruppo casuale di donne di varia estrazione sociale e diversa religione: che ruolo hanno oggi le donne nel mondo globalizzato? Come interpretano l'eredità del femminismo? Che definizione danno di sé? Dalla ricerca emerge4 che le donne intervistate detestavano la “politica” e non avevano nemmeno troppa simpatia per il “femminismo”, ma erano determinate a partire dal loro essere donna per costruirsi una vita libera in un universo in cui il velo può convivere con l'ascesa professionale, un credo profondo non esclude l'adesione a costumi laici, la tradizione sa sposare la modernità.

Ecco mi pare che questa modalità sia presente anche nel gruppo Liber-alo.

 

Cucire insieme

Anna Maria Mazzucco

Leggendo la trascrizione dell’incontro con Hasna mi ha colpito in particolare un punto su cui desidero soffermarmi: l’esperienza del “cucire insieme”. È un tema che ha a che fare sia con la mia infanzia e mia madre sia con la mia esperienza, già negli anni della pensione, con i gruppi dei genitori affidatari.

Da bambina amavo molto cucire insieme alle mie amiche: facevamo vestiti per le nostre bambole, era un gioco divertente che occupava le giornate estive. Mettevamo insieme scampoli di stoffe, ritagli più o meno grandi che le mamme ci davano: e ci riunivamo a casa mia, nel cortile sotto la pergola della vite, munite di forbici, metro, aghi, fili di colori diversi, ditali e, verso gli undici- dodici anni, anche della macchina da cucire che mia madre mi permetteva di usare. Riunivamo le nostre bambole, tutte ovviamente col loro nome, ben pettinate e ben vestite, sceglievamo i ritagli di stoffe e decidevamo se fare gonne, vestiti, mantelline o altro… Era un gioco molto amato. Ci piaceva tagliare e cucire insieme, fare e disfare, provare e riprovare alle bambole i nostri tentativi di taglio e cucito, a volte facevamo anche qualche piccolo ricamo (centrini per la casa per lo più), altre volte ci avventuravamo in piccoli lavori all’uncinetto o ai ferri.

A casa, la mamma la ricordo, praticamente ogni giorno, nel pomeriggio, con il suo cestino da lavoro, a rammendare calze e calzini, a cucire a macchina, ad allungare e accorciare gonne, ad allargare e stringere vestiti (i miei venivano adattati a mia sorella, più piccola di me). La mamma era brava a cucire e molto mi insegnò nella mia infanzia e adolescenza.

Ricordo anche un’altra esperienza di cucito, anzi di ricamo vissuta insieme ad altre bambine. Era l’età della scuola elementare, nel pomeriggio andavo dalle suore per imparare alcuni semplici punti per ricamare centri tavola, per fare gli orli delle tovaglie e tovaglioli. Mi piaceva lavorare con l’ago e contemporaneamente chiacchierare con le altre bambine, confrontare i lavori fatti, le scelte dei colori dei fiori da ricamare oppure consigliare e scambiare tra noi i fili colorati da ricamo, così lucenti e lisci.

Poi  verso i diciassette anni, seguii con alcune amiche un corso di taglio e cucito che mi permise di fare, con mia grande soddisfazione, qualche vestito estivo per me e negli anni successivi qualche gonna e vestitino per mia figlia e i costumi di carnevale per mio figlio e mia figlia bambini. Negli anni da adulta però il cucito non fu più un lavoro condiviso con le amiche, divenne un’attività rilassante, piacevole, divertente, talvolta anche necessaria, ma sempre individuale. E lo è tuttora: mi piace cucire, ma lo faccio da sola.

Il discorso di Hasna sul cucito fatto da adulta assieme alle amiche mi ha colpita, emozionata e ha richiamato alla mente le mie esperienze infantili e adolescenziali… non senza una certa nostalgia per quel piacere dello stare insieme, del condividere, del parlare, ridere, cantare anche. L’ago e il filo mi hanno sempre attirato: hanno il potere di dare forma a un tessuto informe, unire ciò che è separato, abbellire con ricami colorati, riparare ciò che si è strappato.

Ago e filo sono strumenti fortemente simbolici che spesso, nella mia esperienza di conduzione dei gruppi di genitori affidatari vissuta per diversi anni col MCE, sono stati utilizzati per stimolare la circolazione dei racconti di affidi, il confronto di pensieri e riflessioni, lo scambio di emozioni e progetti. Parlare delle proprie esperienze di affido, talvolta dolorose e fallimentari, altre invece ricche di promesse e soddisfazioni, è più facile se ci si può appoggiare ad un “oggetto”, avere tra le mani materialmente uno strumento vero e proprio, come può essere la forbice che taglia carta corde e tessuti ( ma simbolicamente anche relazioni) o l’ago col filo che cuce, rammenda, ricama, metafora dell’imparare a ricucire rapporti lacerati, riparare strappi ed errori, colorare e abbellire con la leggerezza e il divertimento i momenti della vita… Ogni volta che nel gruppo degli affidatari noi del MCE proponevamo come occasione di partenza – animazione per il lavoro la cosiddetta “borsa degli attrezzi di lavoro” (con attrezzi veri e propri dal martello alla forbice, al metro all’uncinetto, ai ferri da lana, all’ago e al filo … perfino al trapano), lo scambio di esperienze, la ricerca di soluzioni a problemi davvero intricati fluivano con facilità. In particolare, se tra le mani di qualche genitore affidatario capitavano l’ago e il filo, allora le parole che circolavano nel gruppo diventavano un vero e proprio “cucire insieme” i pensieri, i desideri, i progetti, le difficoltà. E i discorsi che nascevano e fiorivano erano come un tessuto che gradualmente prendeva la forma di un drappo o un vestito o un mantello …

In quello che Hasna raccontava dell’esperienza del cucito collettivo sia nel suo gruppo che tra le donne in Bangladesh ho intravisto gli incontri periodici degli affidatari, in cui il cucire era ovviamente un lavoro simbolico.

Ma ascoltando Hasna ho anche pensato a Maria Lai, al suo instancabile lavoro con il filo che unisce e lega. In una delle sue opere-performance denominata Legarsi alla montagna (performance che ha interessato nel 1981 tutta la popolazione del paese sardo di Ulassai e di cui ho visto la documentazione filmata che mi ha molto emozionata) un filo azzurro lungo ventisette chilometri viene legato dai cittadini per tutto il paese a porte, finestre, terrazze. Il filo arriva fino al monte Gedili, montagna simbolo del paese. L’arte di Maria Lai diventa così arte relazionale e il filo, con cui lei ha lavorato tutta la sua vita creando opere bellissime, unisce tutti gli abitanti di Ulassai in modo diverso. Ognuno si lega al proprio vicino in modo più o meno stretto a seconda dei legami di vicinanza, amicizia, amore o contrasto…

Maria Lai. Tenendo il sole per mano
Ho accennato a Maria Lai perché nelle sue opere ho intravisto la potenza dell’ago e filo nello stabilire relazioni tra le persone e nel far emergere emozioni, pensieri, speranze, progetti. Forse anche la luce, di cui ha parlato Hasna.

Sull’autonomia

Cate Minosso

Mentre leggevo l’intervista ad Hasna e al gruppo Liberalo mi sono venuti in mente due ricordi. Il primo mi ha fatto tornare a quando insegnavo italiano nel corso per principianti al centro civico di via Sernaglia a Mestre. Il corso era frequentato da molte donne bangladesci che venivano per imparare l’italiano, ma anche per incontrarsi e parlare tra loro. Un giorno dovevo insegnare le preposizioni su e giù e ho pensato di chiedere loro che azioni – su e giù -facevano per mettersi bene il velo. La volta dopo mi hanno portato in dono uno dei loro veli e mi hanno insegnato a metterlo. Ho trovato che mi stava bene ed era comodo. Da allora quando viene l’inverno lo porto spesso perché tiene caldo e ripara le orecchie.

Il secondo ricordo mi è venuto in mente quando nell’intervista si sente arrivare il marito di Sazia. Ero andata a casa di una giovane donna per insegnare l’italiano come lingua straniera. Il marito, un uomo d'affari della stessa nazionalità, in un italiano impeccabile, molto scrupoloso e dedicato negli affari e nella cura della famiglia, mi confessò accoratamente di trovarsi molto sotto pressione. "Io non ce la faccio più". In un contesto come quello italiano, gli era impossibile far fronte a tutti gli impegni (lavorativi e burocratici) e prendersi anche la responsabilità di qualsiasi cosa, incluso l'accompagnare la propria moglie in ogni posto lei si dovesse recare. "Io gliel'ho detto, vi dovrete arrangiare di più ed essere più autonomi, io non posso esserci sempre".

In questo contesto, l'autonomia linguistica era un elemento fondamentale.

 

NOTE

1  Edward Wadie Sa'id , Orientalismo. L'immagine europea dell'Oriente, Feltrinelli 2013, dove sostiene che la maggior parte degli studi occidentali svolti sulle popolazioni e sulla cultura d'Oriente (in particolare relative al Medio Oriente) svolsero la funzione di autoaffermazione dell'identità europea e giustificarono il controllo e l'influenza esercitata nei territori colonizzati.

2  I bengalesi in Bangladesh usano questo termine: Apu/Apa/Api per chiamare la sorella maggiore che ha la sua origine dall'urdu: Apa che ancora una volta ha avuto origine dalle lingue dell'Asia centrale. Ma i bengalesi nel Bengala occidentale/India non lo usano, chiamano la loro sorella maggiore Didi.  La gente chiama la sorella Apu. È l'equivalente di Didi utilizzato principalmente dai musulmani in Bangladesh.  Le persone urbane chiamano la loro sorella Apu e le persone rurali usano Apa. Note raccolte in internet, interventi liberi.

3  Penso a Carla Lonzi, che per me è stata una maestra, quando scrive:” dovevo sganciarmi dal bisogno femminile di approvazione. Dovevo affermare tutto sul nulla…fino ad arrivare al vuoto. In realtà era solo su quel vuoto – che era me stessa – che potevo ascoltare finalmente la mia voce interiore.”. In Carla Lonzi, Taci, anzi parla: Diario di una femminista, Scritti di Rivolta Femminile, 1978.

4 I risultati della  ricerca sono raccolti nel libro di Alain Tounaine, Il mondo è delle donne, Il Saggiatore 2000.

NOTA DELLA REDAZIONE

L'intervista è stata registrata il 18 febbraio 2023 da Maria Giovanna Lazzarin che l'ha poi trascritta integralmente e concordata col gruppo Liber-alo. Oltre a lei erano presenti Anna e Maria del gruppo Voci Fuori Luogo, Hasna, Sazia, Nafisa e Boudurnessa del gruppo Liber-alo. La redazione del sito ha fatto alcune piccole modifiche grammaticali alla trascrizione e aggiunto qualche parola, segnata con [ ], per rendere più scorrevole la lettura nel passaggio dall'oralità alla scrittura.

La foto dell'Incontro tra il gruppo Liber-alo e il gruppo Voci fuori luogo del 27 maggio 2023 è di Maria Marchegiani. La foto del telo ricamato collettivamente a Giavera del Montello è di Maria Giovanna Lazzarin. La foto dell'opera di Maria Lai Tenendo il sole per mano è di Anna Maria Mazzucco.

Archiviato in:Anna Mazzucco, Cate Minosso, Gianfranco Bonesso, la città invisibile, la voce migrante, Maria Giovanna Lazzarin, Voci fuori luogo Contrassegnato con: donne migranti, intervento, intervista, Mestre

Andare a vedere: il museo Africano di Verona

21/08/2023

Riceviamo e pubblichiamo il diario della visita al mA-museo africano di Verona, scritto da Anna Maria Mazzucco e una trascrizione, a cura di Maria Giovanna Lazzarin, di quanto registrato durante il gioco della valigia che si è svolto in quel museo.

Questa visita – a cui ha partecipato il gruppo Voci fuori luogo di storiAmestre – rientra nel metodo dell’associazione di fare ricerca storica contemporanea “andando a vedere” e rappresenta un contributo alla conoscenza delle trasformazioni urbane che stiamo vivendo: attraverso la mediazione degli oggetti esposti e del gioco fatto insieme, si possono sperimentare differenze e assonanze tra le culture oggi chiamate a convivere e interagire nei nostri territori e si può riflettere non tanto su cosa vedere ma sul modo di vedere. Quanto resta dell’impostazione colonialista nel mA-museo africano di Verona?

Vi invitiamo a prestare attenzione anche a due delle note che trovate alla fine dei due testi. La prima sintetizza la presentazione – fatta dal mA-museo africano di Verona – dei cambiamenti avvenuti nel modo di pensarlo rispetto a quando è nato nel 1938. Nel 1936 era stato proclamato l'Impero dell’Africa Italiana e le collezioni del museo coloniale di Roma avevano avuto il nuovo nome di museo dell'Africa Italiana. Questo museo è chiuso da tempo e negli ultimi anni si sta ripensando a come presentare le collezioni.

La seconda introduce il quartiere Veronetta in cui il museo sorge, a lungo zona degradata e considerata il “Bronks” di Verona per la presenza di molti migranti, ora in grande cambiamento per la presenza di spazi universitari e abitazioni di studenti.

 

Anna Maria Mazzucco

Diario di un’esperienza

In gruppo a Verona!

Ci si ritrova in gruppo, domenica mattina 30 aprile 2023, alla stazione di Mestre per prendere il treno diretti a Verona dove visiteremo il mA-museo africano fondato e gestito dai padri Comboniani1. Siamo circa in venti, alcuni sono componenti del gruppo Voci fuori luogo di storiAmestre, altri della casa di Amadou di Marghera.

Il gruppo è vario per età, provenienza, genere, lingua e colore. Anche se l’italiano funge tra tutti da lingua strumentale, tra i componenti risuonano lingue diverse. Un bel gruppo, che rappresenta la pluralità e la varietà degli abitanti di Marghera, Mestre, Venezia.

Molti sono i giovani, ridenti, allegri, chiacchieroni (soprattutto i maschi), aperti a un’esperienza che ci si attende feconda di nuove conoscenze e relazioni. Alcuni sono più avanti con gli anni, io credo di essere la più vecchia, ma non mi sento a disagio in mezzo a così “tanta vita”. Sono curiosa, fiduciosa, penso che la giornata sarà un’occasione da non perdere, mi offrirà nuovi punti di vista sia di riflessione e conoscenza, sia di modalità di relazione con persone così eterogenee.

 

 

Scesi dal treno a Verona, una tranquilla passeggiata lungo il quartiere Veronetta2, nella parte della città ad est dell’Adige, ci porta alla sede del museo, dove siamo attesi.

 

 

 

La giornata promette di essere serena e tiepida, nonostante il timore di brutto tempo sorto al mattino al momento della partenza. Vista l’ora, sistemiamo sedie e tavoli nel giardino per il pranzo comune e ci apprestiamo a condividere cibi e bevande. Come sempre, quando ciascuno porta qualcosa, c’è tanto, anche troppo. Ci sono pietanze colorate, diverse; cibi africani e cibi locali si affiancano. Il pranzo diventa, come il più delle volte succede, un’esperienza di confronti e scambi. Mangiando si moltiplicano le chiacchiere, più o meno leggere, si parla del piacere del palato, dell’olfatto e della vista. Si assaggiano cibi insoliti, almeno per me, si assaporano bevande dolci che ammorbidiscono l’animo.

Si mangia e si parla, si scambiano i nomi, i sorrisi, i commenti sul cibo e le ricette, le provenienze, le professionalità, poi alcuni discorsi si fanno più seri e intensi soffermandosi sulle differenze culturali tra i mondi di provenienza. Ai ragazzi e alle ragazze africane il nostro mondo occidentale appare chiuso, individualista, assoggettato ai ritmi assillanti del lavoro e degli impegni, agli orari segnati imperiosamente dagli orologi, composto da famiglie nucleari nelle quali non trovano posto la cura e il rispetto per i nonni, gli anziani. Lo confrontano, con orgoglio e a me pare anche con un po’ di nostalgia, con il loro mondo, le tradizioni dei loro paesi di provenienza – Mali, Uganda, Senegal, Sierra Leone, Pakistan, Eritrea, Somalia -, in cui il tempo non corre a precipizio e il rapporto umano è al centro del senso della vita, basato sul rispetto, la convivenza e l’attenzione per gli anziani.

I discorsi a un certo punto, si interrompono, è ora di andare a visitare il museo. Così alle 14.30 si lascia il giardino per iniziare la visita.

Perché visitare un museo africano? Perché andarci con un gruppo “misto”?

Prima di raccontare la visita al museo, vorrei soffermarmi sul perché e come è nata questa iniziativa.

Nel gruppo Voci fuori luogo ci si era posti come obiettivo la ricerca di modalità di conoscenza della nostra città, che sta vivendo profonde trasformazioni legate in particolare alla presenza sempre più forte di comunità straniere. E la modalità che ci è parsa irrinunciabile è che non si può lavorare sulla conoscenza del nuovo, che vive accanto a noi, assieme a noi, negli stessi spazi, se non creando occasioni di incontro e confronto, al fine di intrecciare nodi di connessione con i nuovi cittadini. Come conoscerci reciprocamente se non si cercano e concretizzano momenti di vita comune, in cui sia possibile parlarsi, ascoltarsi, far convivere una pluralità di sguardi?

Così fin dalla nascita del gruppo, si è data vita ad alcune “esperienze-incontri comuni” tra cittadini italiani/mestrini e cittadini di comunità straniere. Ricordo per esempio gli incontri con la comunità moldava, che si ritrova nella parrocchia della Natività della Santissima Madre di Dio di Mestre, con l’Associazione di donne bengalesi Liber-alo che, grazie all’azione tenace di Hasna, promuove un laboratorio di cucito, con la confraternita Murid. Il gruppo ha aperto un dialogo con l’Associazione art. 19 e la Casa di Amadou. Ha partecipato ai seminari dell’IUAV sui luoghi di culto delle comunità straniere e al laboratorio translanguaging della mostra Oggetti migranti organizzata dal museo Peggy Guggenheim di Venezia.

E ora questa esperienza-visita al mA-museo africano, proposta da Gianfranco Bonesso, che è riuscito a coinvolgere, oltre a componenti del gruppo Voci fuori luogo di storiAmestre, anche diversi ragazzi stranieri e non della Casa di Amadou.

Visitare insieme un museo che espone oggetti di arte/artigianato/vita africana raccolti dai missionari Comboniani ci è parso coerente con l’obiettivo del gruppo Voci fuori luogo, quello del confronto con altre culture e con persone di altra provenienza.

Va detto però che già in seguito alla visita alla mostra Oggetti Migranti al Peggy Guggenheim, ci eravamo posti di fronte al problema di quale identità culturale i musei e le mostre etnografiche /antropologiche rappresentino, dato che “la loro radice coloniale” evidenzia i nostri schemi culturali, la nostra appropriazione degli oggetti “stranieri” raccolti ed esposti ed un evidente diseguale rapporto di potere con la loro cultura di origine. Oggetti che nel museo vengono decontestualizzati, portati via dal loro ambiente socioculturale e relazionale, esposti alla “curiosità e allo stupore” del visitatore e nel migliore dei casi all’apprezzamento artistico. E perciò privati della loro linfa vitale, congelati in una dimensione atemporale, “incarcerati” dal nostro sguardo coloniale, come scrive Giulia Grechi3, in attesa di essere “liberati”. Oggetti per i quali, suggerisce sempre Giulia Grechi, ci si deve impegnare a immaginare nuove pratiche di esposizione. Tra quelle possibili, la studiosa ne cita a mo’ di esempio alcune, come l’attivazione di rapporti con gli eredi delle popolazioni che nel museo sono rappresentate, per ascoltare le loro narrazioni e confrontarsi col loro sguardo, “in un processo di rilettura e ridefinizione” degli oggetti stessi, o come la ricerca di interventi finalizzati a “riconoscere la centralità del momento coloniale” grazie alla promozione di “tematiche correlate al colonialismo e alle sue conseguenze sul piano sociale e ambientale4”.

E infatti ci eravamo chiesti, discutendone a lungo negli incontri del gruppo, che senso avesse prelevare dal loro ambiente oggetti “migranti” per esporli in un museo occidentale privandoli così del loro legame con i momenti significativi del ciclo della vita, dei riti, delle danze, delle cerimonie religiose, della storia, anche coloniale, di quel paese. Nel silenzio e nell’isolamento di una vetrina gli oggetti diventano muti e quindi impossibilitati a stabilire un dialogo con il visitatore ed essere così messaggeri della conflittuale storia coloniale che li ha fatti arrivare in un museo europeo.

Questa riflessione mi è tornata alla mente quando Gianfranco ha avanzato la sua proposta di visita al mA-museo africano, ma la presenza, nel gruppo che si era costituito per la “gita a Verona”, di diversi giovani africani ha stimolato in me il desiderio di capire come proprio quei ragazzi avrebbero reagito di fronte a manufatti legati al loro mondo e di come avrei reagito io. Mi domandavo cosa avrebbero detto. Sarebbero riusciti a rendere parlanti quegli oggetti con i loro ricordi e conoscenze, con le loro emozioni nel ritrovare “parti di casa”? E ancora una domanda mi girava nella testa: “Saremmo riusciti a mettere insieme i nostri sguardi diversi?”.

Nelle stanze del museo

Appena entrata, il museo mi è parso in tutto simile ai tanti altri musei visitati: una collezione di oggetti, in questo caso provenienti dall’Africa, raccolti dai missionari Comboniani, nel corso degli anni, nelle loro missioni africane, esposti ordinatamente in vetrine, divisi in varie sezioni (il ciclo della vita, i mestieri, le maschere, la musica, le religioni). Ma prima che noi tutti ci disperdessimo nelle diverse sale, ci è stato proposto di sostare per un’attività che ci ha obbligati ad un approccio diverso.

 

una parte del gruppo durante il gioco della valigia
La guida ci ha fatti accomodare in cerchio nella prima sala, attorno a una valigia piena di oggetti: erano copie di oggetti esposti nel museo nelle varie sezioni: maschere, strumenti musicali, statuette rappresentanti antenati/spiriti, strumenti di lavoro, oggetti rituali e altri di non facile identificazione. Ognuno di noi ne ha scelto uno, poi a turno ha presentato al gruppo l’oggetto che aveva tra le mani, descrivendolo e ipotizzandone la funzione.

 

L’atmosfera che avvolgeva tutti era di ascolto, di curiosità e attesa. E di inter-esse, ci eravamo davvero calati nel mezzo di un’attività che promuoveva relazione tra i componenti del gruppo e con gli oggetti.

Si trattava di un’attività animativa a me familiare, alla quale il MCE5 mi aveva nei diversi anni di scuola abituata e di cui avevo più volte sperimentato in classe, con i miei alunni, le potenzialità nel far emergere pensieri, emozioni e cooperazione; perciò è stato facile ed immediato lasciarmi guidare, ascoltare, partecipare. E mi è parso sia stato così anche per gli altri componenti del gruppo.

Nel cerchio, l’animazione ha favorito – non credo solo in me – uno spostamento nel modo di considerare e guardare i diversi manufatti. La presenza dei ragazzi e delle ragazze africane, che hanno immediatamente riconosciuto i vari oggetti nella loro funzione e nel loro legame con la comunità di appartenenza, ha provocato una pluralità di punti di vista, facendo emergere proprietà e significati inattesi e permettendo al nostro sguardo occidentale di vedere oltre. Gli oggetti, grazie ai racconti dei giovani, si sono vivificati, riempiti di memorie ed emozioni, di legami alla comunità di origine, ed anche del piacere di riappropriazione. Si sono spogliati della loro veste museale e del loro mutismo, per acquisire vitalità, parole, suoni. Ed energia emotiva, come si può notare dalla trascrizione di alcuni interventi che trovate alla fine di questo diario.

Si è fatta gradualmente strada una diversa forma di conoscenza in cui gli oggetti si sono aperti alla relazione invitandoci ad ascoltarli.

E così, con questo nuovo atteggiamento mentale ed emotivo, ci siamo poi dispersi nelle diverse sale del museo cercando di cogliere negli strumenti di lavoro e della vita quotidiana gesti, azioni e manipolazioni, nelle maschere il soffio degli antenati o degli spiriti e negli strumenti musicali, la cui voce alla fine abbiamo liberato tutti insieme in un animato concerto, i suoni evocativi di iniziazioni, danze, conversazioni con gli spiriti.

Un’ultima riflessione: quegli oggetti, visti nella loro dimensione reale, incorporata alla vita delle comunità cui appartengono, sono apparsi carichi di un passato, che nei racconti dei ragazzi e delle ragazze africani veniva presentato con amore, orgoglio e nostalgia, un passato portatore di un’identità ancora viva nel presente. Si sono inoltre rivelati in grado di far intravvedere, sia pure in modo non lineare, anche il soffio di vita che pervade le relazioni future tra comunità diverse. Credo che quegli oggetti, accompagnati dalla voce dei giovani, abbiano mostrato di avere il potere di aprire un varco di dialogo e cambiamento.

foto di gruppo con le maschere

Simbolicamente questo passaggio dal passato al presente e al futuro lo abbiamo rappresentato alla fine del percorso di visita indossando ognuno di noi una maschera, di cui il museo presenta una vasta gamma di tipologie, per una foto ricordo collettiva. Coprendo il nostro volto ed esponendone agli altri uno nuovo, abbiamo in qualche modo donato respiro alla maschera indossata che, a sua volta, prendendo vita, ci ha fatto intravvedere la possibilità di interrogarci sulle nostre identità.

A me è parsa una prova, uno dei tanti possibili giochi che l’immaginazione ci spinge a fare alla ricerca di strade che conducano al superamento della contrapposizione noi- loro.

Il viaggio di ritorno

Il viaggio di ritorno è stato un momento di riflessione: stanca, ma con la testa piena di pensieri e immagini, ho cercato di ripercorrere le tappe della giornata e di mettere a fuoco, soprattutto, il significato e il valore dell’esperienza fatta in un gruppo “misto”, composto da persone appartenenti a comunità culturali diverse. Ho ripensato a tre momenti particolari nel corso della visita al museo:

  • L’animazione con la valigia

  • Il concerto con gli strumenti musicali

  • L’atto di indossare la maschera in gruppo

Il gruppo nella sua composizione “mista” ha reso possibile vivere le tre semplici animazioni in un modo fecondo, oltre che piacevole e leggero, dando vita e voce agli oggetti museali, facendoli parlare negli interventi del gruppo riunito in cerchio, risuonare nell’insieme orchestrale improvvisato, agire tra le nostre mani mentre li manipolavamo e respirare nell’atto di indossarli.

Non so se questi tre momenti possono essere considerati abbozzi di piccole e modeste prove di “decolonizzazione” di un museo etnografico. Decolonizzare un museo è certamente un processo complicato che implica molteplici interventi, molto più elaborati ed impegnativi (come quelli – per esempio – definiti “pratiche virtuose” da Giulia Grechi nell’articolo prima citato), eppure… mi pare di aver intravvisto e vissuto, nell’esperienza fatta a Verona, qualcosa di diverso da una semplice visita a una collezione di oggetti etnografici. Qualcosa che ha trovato origine nella condivisione di sguardi diversi grazie alla quale si son potute vedere più cose da più punti di vista, provare altre emozioni, sentire nascere altri pensieri. E non è poco.

 

Il gioco della valigia: parole, immagini, proverbi

Trascrizione a cura di Maria Giovanna Lazzarin

Al gioco della valigia di cui parla Anna Maria Mazzucco hanno partecipato 21 persone di varia provenienza: Mali, Uganda, Senegal, Sierra Leone, Pakistan, Eritrea, Somalia, Argentina, Italia. Io avevo fatto una registrazione del gioco per uso personale, come ausilio alla mia scarsa memoria. Quando Anna ha fatto girare il suo diario della visita nel gruppo Voci fuori luogo l’ho riascoltata. Non è una buona registrazione, non sempre si riconosce chi sta parlando, alle volte è troppo lontano da chi registra, ma è interessante osservare quali oggetti vengono scelti a seconda delle provenienze e che narrazione ne viene fatta.

Ho trascritto le parti più chiare, per motivi di privacy non ho messo i nomi, solo le provenienze, il sesso e a volte l’iniziale del nome. Ho sintetizzato alcune parti. Alla fine della trascrizione ho inserito le foto di alcuni proverbi africani. Poi capirete il perché.

L’unico nome completo è quello di Alessandra, che lavora al museo e ha introdotto e condotto il gioco della valigia.

Alessandra, di spalle, apre la valigia
Alessandra ci racconta che è sposata con un senegalese come la sua collega che arriva poco dopo e con cui condivide la doppia cultura italo senegalese. Insieme hanno fondato i Baobab di carta, un gruppo di famiglie miste, anche figli di coppie senegalesi nati qui, che propongono attività per valorizzare la cultura africana in maniera divertente e formativa. Il museo li ha ospitati tante volte, hanno fatto dei laboratori, preparato delle merende. Mostra e apre una vecchia valigia di cartone appartenuta a un missionario. E’ piena di oggetti. Ci spiega che tutti i momenti della vita in Africa sono celebrati attraverso l’oggetto, che serve a un uso domestico, segnala la collocazione sociale, ma racchiude anche un gusto estetico e un valore simbolico.

Chiede a ciascuno di noi di scegliere un oggetto.

F.(f. Niger) sceglie una bambolina: “ Quando ero piccola giocavamo con questa, andavamo fuori a cercare le erbe per farla”.

E. (f. Italia) prende la foto di una mamma col bambino sulla schiena: “Noi lo usiamo ma lo portiamo davanti per tenerlo sotto controllo, mentre il bambino sulla schiena è controllato dal gruppo e lascia la mamma libera di fare qualcosa. Il bambino sente il respiro della mamma e sta tranquillo”.

E.(m. Italia) sceglie la zucca: “ Quando ero in Africa la usavano per bere, anche come biberon per i bambini, veniva tagliata la parte stretta”.

G. (f. Italia) ha scelto un’altra zucca, ma pensata come strumento musicale.

L. (m. Uganda) mostra uno strumento musicale molto usato in Uganda col nome di Likembe6. Prova a suonarlo.

G (f. Italia) “ da noi lo chiamano Kalimba, è diventato uno strumento new age, per rilassare”.

D. (m. Senegal) “E’ africano, da noi si usa col Bongo. Adesso va di moda insieme ai tamburi”.

S. (m. Eritrea) prende uno strumento usato in Eritrea per dare il ritmo e intona su questo un canto e una piccola danza.

D. (m. Senegal) presenta una maschera della Casamance che vuole omaggiare la mamma e la sacralità della maternità.

A. (f. Italia) sceglie una specie di bastone, ma non sa a cosa serve, si volta verso D. perché glielo ha indicato lui.

D. (m. Senegal): “E’ un segno di potere e saggezza, quella che hanno le persone anziane in Africa. Mi sembrava fosse adatto”.

( m. provenienza africana) sceglie un bastone cerimoniale per il matrimonio: “Il testimone dello sposo usa il bastone nella settimana del consumo e fa la guardia fuori dalla porta per augurare fortuna”.

M. (m. Somalia) prende la maschera di un antenato.

C.(f. Sierra Leone) sceglie la maschera di un’antilope: “ Si usa durante le feste, è simbolo di saggezza per gli uomini , la indossano. Per le donne la usano senza le orecchie”.

Alessandra ci racconta che quando suo marito è venuto la prima volta al museo e ha visto le maschere in una vetrina ha chiesto:“Cosa fanno lì dentro le maschere? Le maschere vanno indossate, fanno parte della festa!”

maschera del coccodrillo presente nella sala

Ci mostra il grande coccodrillo che si trova sulla parete di fronte, anch’esso è una maschera, del Burkina Faso. Il danzatore la indossa con l’appoggio delle mani. E’ simbolo della fertilità.

Interviene A. (m. Mali): “A me sembra un’altra cosa, mi sembra la madre che canalizza, che porta il suo bimbo al futuro, tiene il bambino sul dorso e gli indica la strada, tutto il dorso è come una strada per facilitargli la vita”.

Alessandra prova a spiegare la simbologia della maschera: “La coda del coccodrillo ricorda una mezzaluna, assomiglia all’utero materno e la luna segue il ciclo della donna e le fasi lunari dell’agricoltura. Il cerchio simbolizza la vita che continua e si rigenera. I triangoli, l’armonia e e l’equilibrio tra uomo e animali, uomo e terra, terra e cielo. I disegni a zig zag rappresentano il fulmine che scarica a terra l’energia. Il rosso è colore del sangue, il nero, colore della terra quando è bagnata e fertile, il bianco colore della morte, ma attenzione, è un continuo, c’è la concezione che la vita continua anche dopo”.

 

 

 

 

A. (m. Mali) riprende a parlare e mostra la collana che ha scelto: “In francese si dice cauri, in wolof petau, serve per leggere il futuro, ma è anche segno di virilità e fertilità. Per questo li ho scelti”.

D. (m. Senegal): “Sono conchiglie, servono per leggere il futuro”.

A. (m. Mali) : “ Questo è stato fatto come una collana, ma lo usano anche per leggere il futuro . Le buttano su una cosa fatta di bambu e vedono come cadono i pezzi, se sono accoppiati, se sono separati, se sono girati”. Li lancia per terra per far vedere.

fascia con cauri presente nella vetrina

 

 

Alessandra spiega che nell’antichità erano usate anche come moneta di scambio. Mostra in una vetrina una fascia che viene regalata alla sposa, che la mette in casa come segno di fertilità per la sua famiglia.

“Noi europei – dice- siamo abituati a vederle come collane, braccialetti. Sono diventati supermoda in Italia 3-4 anni fa perché Chiara Ferragni aveva deciso di portare una cavigliera con i cauri”.

 

 

particolare statua di Simone Leigh esposta nella Biennale VE 2022

 

 

 

G. (m. Italia) ricorda che alla Biennale di Venezia del 2022 c’era la grande statua nera dell’artista americana Simone Leigh, che aveva addosso queste conchiglie, chiamate cri-cri, anche a chiudere le treccine, ed erano portafortuna, per la fertilità.

 

 

 

 

Poi mostra l’oggetto che ha scelto: “ In Ghana vuol dire benvenuto per il bambino, la mamma la impugna per lasciare il dolore”.

(A. f, Italia) prende lo sgabello, in Gambia  gliene davano uno uguale al momento del pasto:

“In Gambia, in villaggio da me, si mangia tutti dallo stesso piatto, quando sono arrivata come ospite mangiavo molto lentamente, loro in 5 minuti finivano. Dico sempre: voi cucinate in due ore e mangiate in 5 minuti, noi cuciniamo in 5 minuti e mangiamo in due ore!”

Alessandra ci racconta che non è stato facile per lei capire il senso forte del gruppo familiare in Senegal:

“ Io pensavo che la mia famiglia era mamma, papà, figli, poi ci sono i cugini, zii, nonni, ma quelli che sono più miei sono il marito e i figli. Invece in Senegal siamo tutti un gruppo. Per dire, le scarpe si mettono fuori, la mattina uscivo e non c’erano più le mie scarpe, vedevo la cognata con le mie scarpe! Ho imparato che è tutto nostro…L’ospite viene sempre messo davanti e gli si dà la parte più buona. Anche quando si ha poco da condividere. Anche quelli di passaggio: vieni, siediti!”

D. (m. Senegal): “Dopo tanti anni qua l’ho perso. Vado giù e non apro più la porta come una volta, ma apro e chiedo: Chi è? Mi guardano male”.

A. (f. Italia) ricorda che era così anche in Veneto una volta, si accoglievano di più le persone.

G. (f. Italia): “Non c’era la chiave sulla porta a casa mia.”

E. (f. Italia) “Io ricordo che abitavamo in campagna, se arrivavano i viandanti, magari aiutavano nella stalla, poi avevi il piatto per loro, venivano dentro e dormivano. C’era questa accoglienza”.

G. (m. Italia) “In campagna da noi la nonna aveva un tavolo lungo lungo con un cassetto, apriva il cassetto e metteva delle cose che aveva fatto e avanzato e quando veniva qualcuno si apriva il cassetto e si davano queste cose”.

D. (m. Senegal): “Anche da noi, a casa di Amadou, c’è un posto libero se arriva qualcuno. Alcuni si comportano bene, alcuni fanno brutta figura”.

Queste sono le ultime parole di una registrazione che somiglia un po' ai fogli nella bottiglia de l figli del capitano Grant: qualcosa si è capito, molto è andato perduto, forse riascoltando meglio viene fuori un’altra storia…

Finito il gioco Alessandra ci ha portato in una stanza dove suo figlio ci ha insegnato a giocare il mancala, l’antico gioco da tavola africano della semina.

Sulla parete della stanza erano disegnati alcuni proverbi africani, forse in omaggio alla mostra: Afriche, volti e proverbi, ospitata al museo nel 2019 con fotografie di Marco Aime che la presentava così:

«Una sorta di passeggiata tra voci d’Africa che raccontano di un sapere talvolta scomparso, talvolta più che mai vivo e che ci mettono di fronte a un pensiero con il quale confrontarci, anche con “l’occhio dello straniero” che vede solo ciò che già conosce, perché come ci ha detto lo scrittore ed etnologo maliano Hampate Ba: «Un racconto è uno specchio in cui ciascuno può scoprire la propria immagine».

Visto che sul finale della registrazione c’è stato un tentativo di rispecchiamento tra i presenti basato su riti e saperi forse scomparsi, appartenenti a mondi contadini tradizionali, ho pensato di chiudere con alcune foto dei proverbi disegnati sulla parete.

 


 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE

1   Il MA-Museo africano dei missionari Comboniani, è nato da un’intuizione del vescovo Francesco Sogaro, primo successore di San Daniele Comboni, primo vescovo dell’Africa Centrale. I primi oggetti inviati a Verona dai missionari furono messi in mostra in una stanza del grande edificio della ‘Casa Madre’ dell’Istituto. Si dovette aspettare il 1938, per decidere di istituire il museo africano di Verona. L’iniziativa aveva un carattere prettamente missionario: offrire una vetrina delle attività dei missionari comboniani in Africa. Nei primi anni Settanta si decise di renderlo uno spazio aperto e strumento didattico per chi desiderasse conoscere l’Africa. In pochi anni, il museo si trasformò in luogo di studio etno-antropologico sull’Africa, anche per mezzo della Biblioteca di Nigrizia (ricca di circa 20.000 volumi). Studenti di ogni grado ebbero modo di svolgere ricerche e preparare tesi di laurea su tematiche d’interesse etno-antropologico. Gli anni successivi hanno visto un importante coinvolgimento di antropologi, ricercatori ed esperti di culture africane. Pur disponibile a ogni tipo di visitatore, il museo si aprì sempre più al mondo scolastico e universitario. Nel 1996 vi fu un ulteriore rinnovamento per rispondere a nuove sensibilità e a nuovi modi di porsi di fronte all’Africa. Da allora, pur continuando a essere una ‘vetrina etnografica’ per la conoscenza dell’Africa, il museo ha acquistato vitalità nuova, per radicarsi sul territorio e diventare strumento di dialogo interculturale. Internamente ristrutturato, ha offerto ai visitatori percorsi multimediali, integrandoli con attività collaterali ‘vive’, quali l’allestimento di mostre e l’organizzazione di laboratori didattici in cui gli studenti potessero esprimere la propria creatività nell’incontro con culture altre. Tratto da: museoafricano.org.

2   Veronetta è un quartiere di Verona, collocato sulla riva sinistra dell'Adige rispetto al centro storico. Dopo l'inondazione del 1882 cadde in miseria, e finì per essere un quartiere povero. Gli anziani raccontano che negli anni ’50 era il luogo dove si raccoglievano i braccianti arrivati dal centro e dal sud Italia, perché accettavano di vivere in una zona della città che aveva fognature a cielo aperto. Dagli anni ’80 confluiscono nel quartiere i flussi migratori dall’Africa, portando persone disposte a vivere in appartamenti non ristrutturati, affittati a poco. Con la nascita dell’Università di Verona nel 1982 in quest’area sono stati inseriti molti percorsi di studio e residenze di studenti, rendendola un quartiere molto vivo. In Veronetta vi è un numero incredibilmente alto di associazioni umanitarie. Qualche esempio: Casa di Ramìa, "luogo d’incontro per donne migranti e italiane"; il sito di documentazione dei fenomeni migratori Cestim; il cartello "Nella mia città nessuno è straniero"; il centro missionario dei padri Comboniani. Per un approfondimento si veda il blog: Loris Mag.Libri, fotografie, storie.

3  Si veda Giulia Grechi, Fantasmi coloniali e Memorie trans-culturali, Nigrizia n. 5 maggio 2023, pp. 10-12.

4  Ibidem, p.12.

5   Si tratta del Movimento di Cooperazione Educativa, costituito da insegnanti, pedagogisti, operatori della formazione che si ispirano e condividono la metodologia della Pedagogia Popolare di Célestin Freinet, insegnante francese, introdotta nella metà del XX secolo.

6    Su una tavoletta di legno, sono disposte una serie di lamelle metalliche, di canna o di giunco fermate ad una estremità da una barretta trasversale e sollevate rispetto alla cassa armonica da un ponticello. Lo strumento, accordabile spostando le lamelle rispetto al ponticello, si suona pizzicando le lamelle con i pollici. Questo strumento si sta ora diffondendo col nome di Kalimba.

NOTE DELLA REDAZIONE

La foto del gruppo con la maschera è di Anna Maria Mazzucco.

La foto del particolare della statua di Simone Leigh alla Biennale di Venezia 2022 è di Gianfranco Bonesso.

Tutte le altre foto sono di Maria Giovanna Lazzarin.

 

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Incontrare i Manteros di Barcellona alla Biennale di Venezia 2023

29/07/2023

Maria Marchegiani e Anna Maria Mazzucco, del gruppo Voci fuori luogo di storiAmestre, ci raccontano la visita alla mostra “Seguint el peix / Following the fish/ Seguendo il pesce” ospitata nel Padiglione della Catalogna della 18° Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia. La mostra presenta l’esperienza di un gruppo di immigrati senegalesi a Barcellona che ha fondato la cooperativa Top Manta e ci fa capire come nell’affrontare i problemi della convivenza tra culture diverse sia importante l’ascolto, la condivisione, la capacità di pensare insieme nuovi progetti che possono partire da iniziative di un piccolo gruppo ma hanno bisogno del sostegno di altri gruppi e delle istituzioni per restare in vita e crescere.

 

 

Maria Marchegiani e Anna Mazzucco

 

L’obiettivo principale del Gruppo Voci fuori luogo è stato, fin dalla  sua costituzione, favorire incontri ed esperienze comuni tra cittadini italiani residenti a Mestre- Venezia e cittadini provenienti da altre parti del mondo che vivono e si muovono negli stessi spazi, nella stessa città. Incontri ed esperienze in grado di aprire dei varchi di conoscenza reciproca per dare alla comunità cittadina tutta, così variegata e composita, un nuovo respiro che permetta di guardare agli altri con fiducia, di vivere insieme nel confronto tra molteplici modi di pensare e relazionarsi. In questa ottica sono state già promosse varie occasioni di incontro con comunità di cittadini stranieri.

 

 

locandina della mostra

L’ultima, in ordine di tempo, è stata la visita realizzata il 20 maggio 2023 alla mostra ospitata nel Padiglione della Catalogna come Evento Collaterale della 18° Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia. Si tratta di un progetto particolarmente interessante curato dalla Casa di Produzione Leve in collaborazione con la Cooperativa di migranti senegalesi Top Manta e prodotto dall’Istituto Ramon Llull.

La mostra, dal titolo “Seguint el peix / Following the fish/ Seguendo il pesce”, presenta l’esperienza di un gruppo di immigrati senegalesi a Barcellona che, dopo un lungo periodo di vita difficile senza documenti, vendendo merce stesa su lenzuola lungo le strade della città, si sono costituiti in cooperativa trovando nell’unione in gruppo forza, energia e visibilità – pur incontrando ancora problemi sul piano del riconoscimento legale – e riuscendo a dar vita a un proprio marchio per la produzione di T-shirt, scarpe e altro. Il nome della cooperativa è Top Manta. Manta in catalano significa coperta/telo, a ricordare i teli stesi a terra per l’esposizione della merce, mentre l’aggettivo Top sottolinea, a noi pare, la volontà di emergere per rendersi visibili.

All’inaugurazione della mostra era stata invitata la Casa di Amadou di Marghera che aveva curato i rapporti con gli organizzatori. Grazie a Gianfranco Bonesso, l’invito è stato esteso a molte associazioni del territorio aperte alle problematiche della convivenza con comunità straniere, tra cui ricordiamo Emergency, Mediterranea, Articolo 19, Associazione Trevisanato, Agesci, Mce, Auser, Tavolo Comunità Accoglienti…. e Voci fuori luogo.

La visita fin da subito si è rivelata una importante occasione per conoscere soluzioni alternative e creative ai problemi di vita e lavoro che gli immigrati si trovano ad affrontare nei paesi in cui giungono e per confrontarsi con gli stessi protagonisti dell’esperienza catalana, la cui presenza nel padiglione ha reso più vivo e fecondo l’incontro, grazie alla possibilità di parlarsi, dialogare, scambiarsi racconti.

Entrati nel Padiglione guidati dai curatori della Casa Produttrice Leve, ci siamo trovati di fronte a una serie di teli bianchi, mantas, sospesi come bilance da pesca, sulla cui superficie sono dipinte immagini e parole che ricostruiscono la storia dei giovani manteros dalla loro partenza dal Senegal al loro arrivo in Spagna, con le tante difficoltà incontrate e le tante prove di superamento delle stesse.

                                                           Il padiglione della mostra Top Manta

Le bilance esposte che si vedono nella foto, si possono chiudere e sollevare a imitazione delle mantas che i giovani venditori, costretti dalle stesse leggi dei paesi europei ad essere venditori illegali, in gran fretta raccoglievano dalla strada, all’arrivo della polizia, in un grande fagotto unendo gli angoli e proteggendo così la merce in vendita dalla confisca.

Le mantas-bilance chiuse e sollevate

Le mantas, così sospese nell’ampio spazio del Padiglione, sembrano davvero bilance da pesca, ma l’immaginazione può trasformarle in vele gonfiate dal vento. In questo modo si richiama il titolo della mostra “Seguendo il pesce”, quel pesce che le compagnie occidentali depredano nel golfo di Guinea, al largo delle coste del Senegal e della Guinea, privando le popolazioni locali di una loro importante fonte di sostentamento e spingendole all’emigrazione in quegli stessi paesi occidentali che non le accolgono ….. ma le sfruttano.

Partono soprattutto giovani maschi, con un grande vigore fisico e grande determinazione, forza d’animo e fiducia nel futuro che mirano tenacemente a costruirsi. Ma tra loro ci sono anche giovani donne, come ci ricorda un pannello sospeso sopra una manta che riporta una riflessione che ci ha colpite: “Le donne non sono esseri deboli, non sono esseri inferiori. Credo che una donna che decide di partire, che riesce a fare tutto il viaggio e ad arrivare qui, non sia una donna debole; è una donna forte e coraggiosa che vuole farlo. Quelle che sono arrivate qui hanno dei meriti e ce li hanno anche quelle che sono rimaste nel mare”.

Un altro pannello ci ricorda che il fenomeno dell’emigrazione tocca non solo chi parte ma anche chi continua a vivere nel paese, aspettando notizie, pregando per il buon esito del viaggio, sperando che i sogni si realizzino, riferendosi in particolare alle donne, madri, mogli, sorelle rimaste a casa: “ Ci sono anche le donne che restano nel Senegal e che aspettano notizie da quelli che sono partiti. È un aspetto poco considerato. Donne che aspettano per molti anni. Donne coraggiose, che fanno grandi sforzi per poter mantenere i figli. Una situazione di lunga attesa che si potrebbe compensare se i mariti o figli venuti in Europa potessero lavorare subito. A questo fatto si aggiunge la difficoltà di fare il ricongiungimento familiare. La Fortezza Europea non solo punisce chi sta qui, ma anche chi resta a casa”.

Come i pesci pescati e sottratti ai paesi africani, per trasformarli in mangime per l’acquacoltura europea, i giovani senegalesi seguono le rotte della diaspora che li spingono a cercare nuove possibilità di vita, in paesi e città diversi dal loro mondo di provenienza. Una manta, bellissima, mostra dipinto sulla sua superficie bianca un villaggio, dove le case nere sono tra alberi neri con ampie radici e zone erbose verdi, dove gli animali anch’essi neri pascolano pacifici guidati dai pastori, dove gruppi di lepri rosse corrono veloci… e dove in primo piano un grande banco di pesci azzurri scivola lento.

Villaggio senegalese, nei ricordi dei giovani manteros

Un’altra manta con linee rosse e tratti blu evidenza i viaggi delle migrazioni, alcuni giunti a buon fine, altri purtroppo interrotti spesso tragicamente. Il mare diventa la tomba di giovani vite partite con tanti sogni, dei quali non rimane nemmeno il nome: “Non esiste nessun registro o canale pubblico che permetta ai familiari delle persone scomparse sulla “ruta canaria” (nota) di chiedere informazioni o denunciare i fatti. Non si dà importanza alla loro identificazione, dato che molte volte vengono seppellite in fosse comuni o loculi senza nome”. 1

 

 Le vie delle migrazioni

Altre mantas mostrano disegni di borse, scarpe, cappelli che i manteros producono e vendono. Con la loro creatività i giovani senegalesi della cooperativa Top Manta hanno dato vita a modelli originali di capi d’abbigliamento che non possono essere accusati di essere copie illegali di marchi famosi, accusa che sta sempre alla base delle confische della merce da parte della polizia. Nella foto riportata sotto potete vedere una t-shirt di cui ci ha colpito la scritta: “LEGAL CHOTHING ILLEGAL PEOPLE”. Nella stessa foto si vedono in alto appese a dei fili parecchie t-shirt colorate col marchio Top Manta con scritte differenti.

 

                      Magliette Top Manta, perfettamente legali                       

Il nostro sguardo è immediatamente attirato poi da una manta in cui campeggia una grande scritta: “I DIDN’T DREAM OF BEING A MANTERO” accompagnata da altre tra cui “HOY NO HEMOS SALIDO A VENDER, HEMOS SALIDO A PEDIR LIBERTAD oppure AQUI’ SE TORTURA COMO EN LA DICTADURA!”.

 

                                                                                  Non sognavo di essere un mantero

Infine, vogliamo ricordare una manta che ci ha colpito anche per i suoi vivaci colori: rappresenta le risorse dei paesi africani, tra cui il petrolio, l’oro, i diamanti, il cotone e tanti, tanti pesci colorati, di forme diverse che sembrano nuotare in mezzo a tanta abbondanza. Tutto oggetto di sfruttamento da parte dei paesi ricchi.

 

Le ricchezze dei paesi africani, depredate dai paesi ricchi

 

A Barcellona l’ostinazione e la determinazione dei giovani manteros a dare valore alla loro vita, ha trovato accoglienza nell’Associazione Ramon Llull che ha sostenuto e prodotto il progetto Top Manta, curato dalla casa Produttrice Leve, progetto che si è allargato anche alla collaborazione con altre Istituzioni, tra cui il Comune di Barcellona e l’Università di Architettura della città, che ha curato la seconda parte della mostra. Questa parte presenta progetti urbanistici e architettonici progettati ascoltando e seguendo i modelli culturali senegalesi che si fondano sull’uso di spazi collettivi, in cui l’accoglienza, lo scambio sociale, il confronto, il mangiare insieme, la polifunzionalità degli spazi di vita si contrappongono all’individualismo e alla frammentazione degli spazi di vita occidentale. “In Senegal siamo tanti, siamo uniti. Abbiamo l’abitudine di stare insieme e a casa di tutti. Non sai mai dove mangerai ma ovunque ti trovi mangerai. La sfida è come portare questi valori a Barcellona, per vedere come possiamo trasformare le nostre mura in qualcos’altro. Qui è tutto frammentato, non conosci la persona che abita dall’altra parte del muro. La frammentazione europea rende difficile trovare spazi comuni, ma se sei pronto a condividere vivi meglio.”

Dall’ Università di Architettura sono state individuate tre sfide.

La prima riguarda la ridefinizione delle mense sociali seguendo l’abitudine che avevano questi giovani di incontrarsi e mangiare insieme. "Da molto tempo, la comunità dei venditori ambulanti pensava di trasferire questa pratica in un locale aperto, di quartiere e replicabile. Un luogo accessibile a tutti, che accolga e favorisca gli scambi, che produca una cucina variegata fatta di prodotti locali".

La seconda, chiamata teranga, prevede delle residenze collettive temporanee per offrire cure e sostegno a chi è appena arrivato in città perché non si perda. "Un luogo di qualità dove trascorrere il tempo necessario per ricomporre una vita. Una casa sempre aperta".

La terza sfida, chiamata sutura, prevede la conversione di locali a piano strada come catalizzatori di usi sociali trasformativi.

"La sfida ha preso forma osservando il retrobottega del negozio “manter” nel quartiere del Raval. Uno spazio che risolve il problema del magazzino, ma che è diventato una piccola struttura sociale. E’ il luogo dove ci si incontra, si organizzano le lotte, si preparano i manifesti, dove ci si riposa, si prega, si fanno i compiti, si caricano i cellulari, si mangia. Attività che garantiscono la loro presenza al piano strada, aperte a tutti, dove si può stare insieme. Questo modello, raro, sottovalutato, quasi inesistente nei generici esercizi commerciali, fa parte di un’idea di comunità che migliora la qualità della nostra convivenza. Una strategia che dota il quartiere di un sistema locale di spazi commerciali rimasti vuoti finora. Soluzioni di piccole dimensioni, strutture diffuse e ibride".

Al termine della visita, vi è stato un lungo parlare insieme tra i giovani senegalesi e i rappresentanti delle diverse associazioni presenti. I manteros hanno raccontato la loro esperienza, le difficoltà, i problemi aperti, i progetti che hanno in animo, rispondendo alle numerose domande che si incrociavano nel confronto. Sentire la loro voce, i loro racconti, i loro nomi, vederli fieri del loro lavoro e della loro cultura, orgogliosi dei risultati finora ottenuti, sia pure parziali, convinti nel proseguire in questo percorso, ci ha fatto capire che qualcosa può succedere e cambiare nelle relazioni all’interno delle città. Un qualcosa in cui tutti ci guadagnano: i manteros che possono sentirsi più sicuri sul piano economico e del riconoscimento della loro presenza e la città di Barcellona che collaborando può rivitalizzare una parte della città e favorire una migliore convivenza tra tutti i cittadini.

Ma ci ha colpito anche constatare, con un certo sconforto, che le traversie e le fatiche dei migranti si somigliano tutte alle varie latitudini e longitudini, dove i paesi ricchi e nello stesso tempo bisognosi di forze giovani per il loro stesso sviluppo hanno ancora un lungo cammino da affrontare per aprirsi all’accoglienza, alla dignità del lavoro, al riconoscimento dei diritti fondamentali. Ci è parso anche evidente che il cammino per trovare le soluzioni è di certo lento e tortuoso, richiede sofferenza, tenacia e forza d’animo, ma è possibile percorrerlo se vi è l’apertura di istituzioni, associazioni, gruppi di cittadini che vedono, non chiudono gli occhi, si mettono in gioco e offrono un appoggio che, come nel caso di Top Manta, può essere determinante per dare visibilità al problema della convivenza civile e dignitosa tra comunità di provenienza diversa nella medesima città.

L’Associazione Ramon Llull, la Casa Produttrice Leve, il Comune di Barcellona, l’Università di Architettura hanno amplificato la voce dei giovani senegalesi che già con il loro impegno, costituendosi in cooperativa, avevano fatto un passo importante verso il riconoscimento della loro presenza e del loro lavoro nella città di Barcellona. Avevano conquistato il diritto al riconoscimento del loro nome, messo per iscritto sull’atto di costituzione della cooperativa, e quindi della loro identità, fino ad allora ignorata ed invisibile. Avevano dato dignità al loro lavoro e offrivano anche la possibilità ad altri migranti di trovare aiuto, accoglienza, lavoro.

NOTE

1. Per identificare i migranti morti in mare è stato costituito in Italia il Labanof (Laboratorio di antropologia e odontologia forense) dell’Università di Milano, braccio tecnico dell’ufficio del commissario straordinario per le persone scomparse del ministero dell’Interno, che ha iniziato lavorando sui corpi dei morti nei naufragi di Lampedusa del 3 ottobre 2013 e del 18 aprile 2015. Per raccontare la sua esperienza Cristina Cattaneo, a capo del laboratorio, ha scritto il libro Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo, Raffaello Cortina Editore, 2018.

NOTA DELLA REDAZIONE

La foto: Il padiglione della mostra Top Manta è di Flavio Coddou.

Le altre foto sono di Maria Marchegiani e Anna  Maria Mazzucco.

Le parti del testo in corsivo  tra " sono citazioni dai pannelli espositivi della mostra.

 

 

 

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La città che cambia: la comunità moldava fa rivivere uno spazio abbandonato

12/06/2023

Facendo seguito all’articolo di Claudio Pasqual sulla storia della chiesetta dell’ex ospedale Umberto I di Mestre, pubblichiamo il racconto e le riflessioni sull’incontro tra il gruppo Voci fuori luogo di storiAmestre e la comunità moldava che si riunisce in quella chiesetta. Le conversazioni e gli scambi avvenuti hanno portato a scoprire le numerose attività di mutuo aiuto di quella comunità e il lavoro svolto per far tornare alla bellezza un luogo centrale della città. Questa esperienza di condivisione ha portato ad organizzare insieme due eventi che vengono qui presentati.

Questa microstoria del gruppo Voci fuori luogo si collega a un interesse che si sta sviluppando verso il pluralismo religioso e l’attivismo delle minoranze religiose in ambito urbano e territoriale, come dimostra la ricerca promossa in Lombardia dal Centro studi Confronti e dalla Fondazione Basso, ricerca citata nell'articolo, da cui emerge, tra l’altro, che gli immigrati, quando ottengono l’appoggio delle istituzioni religiose maggioritarie, riportano a nuova vita vecchie chiese in disuso dei centri storici, rianimando settimanalmente spicchi di città pressoché desertificati e talvolta a rischio di degrado.

 

Maria Giovanna Lazzarin 

 

Quando sono andata a conoscere la comunità ortodossa moldava che si riunisce nella chiesetta dell’ex ospedale Umberto I di Mestre, ho avuto una sorpresa inaspettata.

L’idea di contattarla era venuta durante un incontro del gruppo Voci fuori luogo1 di storiAmestre. In quell’occasione Solomon Seyum, studente allo IUAV, aveva presentato la cerimonia del Meskel, la più importante e sentita festa religiosa etiope, che celebra il ritrovamento della santa croce da parte di sant’Elena. Gianfranco Bonesso, antropologo, aveva ricordato una cerimonia sullo stesso tema, anche se diversa, vista e fotografata nelle Filippine e a me era venuta in mente la venerazione moldava verso sant’Elena.

Così ora stavo andando in esplorazione. Provenivo da piazzale Candiani, col suo pavimento a mosaico, e mi ero infilata in una stradina in terra battuta e ghiaia, sulla sinistra lo sguardo incrociava la recinzione di un parcheggio e le auto distribuite in disordine su ghiaia e fango, sulla destra edifici sopravvissuti a tempi migliori.

Alla fine della recinzione c’era una cancellata aperta, sono entrata e improvvisamente mi trovo in un parco con alberi frondosi, erba verde su cui spicca una fila di tricicli in attesa dei bimbi, sul fondo la grotta con una madonna che mi ricorda l’asilo delle suore a Belluno, sulla destra il rosa antico e fresco della chiesa con bianche rifiniture a sottolinearne le linee architettoniche. Che contrasto!

Prima di allora avevo visto solo da lontano il luogo, non mi ero accorta della sua bellezza.

 

Il parco storico dell'ex ospedale Umberto I dietro il cancello

 

                                  

Visione interna del parco storico dell'ex ospedale Umberto I

Quella domenica non sono andata oltre nel mio intento. Dietro il portale d’ingresso chiuso si sentiva un coro a cappella. Viola, una gentile donna georgiana alta e bionda, stava per entrare in chiesa e mi ha spiegato che la funzione era iniziata da poco e sarebbe durata due ore, per lo più in piedi. Ero arrivata troppo presto.

Due domeniche dopo ritorno con l’amico Solomon Seyum che qualche volta va a messa lì. Sono le 12 ma il portale è chiuso, Anatolie Bitca, parroco della comunità ortodossa, non è venuto, molte persone sono riunite a capire cosa è successo, tutti parlano con affetto di padre Anatolie e fanno capire che il contrasto è col metropolita della Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia che ha sede a san Giorgio ai Greci a Venezia e a cui sono collegati2. Chiediamo informazioni a uno di loro, Sergio, che ci presenta la moglie e il figlio Giovanni, è preoccupato per la situazione, mi dà volentieri il numero di telefono del parroco: le risponderà di sicuro!

Infatti la settimana successiva entro in contatto con padre Anatolie, mi parla di nubi che stanno oscurando il cielo, ma spera che il vento dello spirito possa rasserenare. E’ in partenza per Gerusalemme. Gli presento brevemente la piccola ricerca che stiamo facendo e vorremmo confrontare, è interessato. Restiamo d’accordo di incontrarci al suo ritorno.

Ritorno alla chiesa due domeniche dopo, per i cattolici è la domenica delle palme. Arrivo alle 12, la chiesa è aperta, ma padre Anatolie ancora non può celebrare. Fuori ci sono dei fedeli che mi raccontano i lavori fatti per restaurarla. Scopro così che, quando nel 2014 il Comune l’ha concessa in comodato d’uso3, la chiesa era abbandonata da molti anni, pioveva dentro, c’erano immondizie da riempire un camion intero, il pavimento era ricoperto da tanta sporcizia che i macchinari non riuscivano a toglierla, un’anziana signora mi racconta di averlo pulito a mano inginocchiata per giorni e giorni fino a far tornare alla vista il marmo. Mi portano all’interno per vedere alcuni particolari del restauro: “ Lavorando con delicatezza siamo riusciti a far tornare alla luce la scritta sull’arco [del presbiterio] con la dedica alla Madre di Dio. Abbiamo anche scoperto il cielo di stelle del soffitto, prima invisibile”.

Questo e altro mi spiegano. Possibile che di tanto lavoro non si sapesse nulla in città?

Storie

Quella chiesa per i mestrini è legata alla memoria della salute e fragilità nostra e dei nostri cari. E’ collocata in un luogo centrale e significativo per la città, dove per un secolo ha funzionato l’ospedale pubblico, come racconta Claudio Pasqual in un articolo del sito4. Da quando nel 2008 l’ospedale è stato trasferito a Zelarino in una nuova struttura, tutta la zona è ferma e in abbandono – nonostante le proteste dei cittadini organizzati nel comitato ex Umberto I – in attesa che il nuovo proprietario, Francesco Canella dei supermercati Alì, sblocchi i lavori del suo progetto edilizio. Tutto tranne la chiesetta e il suo parco storico, la cui bellezza risplende, per merito del restauro e della cura della comunità moldava, tra i vecchi edifici in rovina e i parcheggi provvisori.

Incontri

Così quando il gruppo Voci fuori luogo si è potuto finalmente incontrare con padre Anatolie e la moglie Svetlana abbiamo chiesto di poter organizzare non uno, ma due incontri, entrambi ospitati nella chiesa.

Il primo si è svolto il 9 giugno 2022 sul tema da cui eravamo partiti: Sant’Elena e il ritrovamento della vera croce. Cerimonie e racconti nella città che cambia.

Locandina incontro del 9 giugno 2022.

Nel frattempo la posizione di padre Anatolie e della sua comunità religiosa si è chiarita col loro spostamento sotto il vicariato episcopale per le parrocchie moldave in Italia del Patriarcato di Mosca e la solenne cerimonia di insediamento, il 25 settembre, alla presenza del vescovo ortodosso Ambrozie, proveniente dalla sede bolognese.

Il secondo incontro, 16 ottobre 2022, si è incentrato sulla storia della chiesa, ricostruita da Claudio Pasqual e sull’opera di pulizia e restauro, descritti attraverso gli interventi di chi aveva partecipato ai lavori insieme al parroco.

Il lavoro di restauro dell'abside
Quando sono arrivati – così hanno raccontato – il luogo non era solo in abbandono, ma, come succede spesso in queste situazioni, occupato da ricoveri provvisori di senza tetto e e da attività di spaccio di sostanze. Mentre portavano avanti il lavoro di pulizia, hanno cercato di stabilire un rapporto umano e rispettoso con queste persone. Padre Anatolie ha offerto cibo e vestiario, mangiando insieme si è cercato un dialogo. Non sempre ha funzionato. Le vetrate della chiesa sono state rotte a sassate. Una volta è dovuta intervenire la polizia. Ma si è dato loro il tempo di capire che non potevano più stare lì e un po’ alla volta si sono allontanati.

Alla pulizia è seguito il restauro secondo le indicazioni degli esperti del Comune. Pulizia e restauro sono stati pagati interamente col lavoro e i soldi raccolti all’interno della comunità, anche quando si è trattato di far rifare le vetrate da un abile artigiano veneziano. Di questo vanno orgogliosi, lo si capisce dal tono dei loro racconti.

il restauro dell'abside
Questa chiesa è ora diventata un presidio di aggregazione dove organizzare attività religiose, culturali, educative e sociali, sviluppare servizi e pratiche di mutuo aiuto che integrano il welfare pubblico, rianimando settimanalmente un’area di città pressoché desertificata e a rischio degrado.

Lo scambio

Questo incontro ha permesso uno scambio tra residenti di vecchia data in città, che ricordavano storie di malattie e di parenti legate alla chiesa – erano presenti, tra gli altri, anche tre nipoti del progettista Giorgio Francesconi – e la comunità moldava che nella chiesa ora si riunisce e ha trovato in questa occasione un riconoscimento pubblico del grande lavoro svolto e del valore culturale e sociale che il luogo può ancora rappresentare per la città.

La chiesa è stata intitolata alla Natività della Ss. Madre di Dio e allestita secondo il rito ortodosso con l’iconostasi e le icone.

Padre Anatolie, alla fine del secondo incontro, ha illustrato l’allestimento e si è concentrato sull’iconologia, la posizione e il significato delle icone presenti. Ha spiegato che l’icona è una finestra sulla spiritualità e sul soprannaturale. Nulla è opera dell’arbitrio individuale, l’apparente ripetizione proviene da una sapienza collettiva. Anche il modo di trattare la tavola, le materie usate hanno un significato simbolico, l’oro attraverso la sua lucentezza rappresenta la luce diffusa nello spazio, fa entrare chi l’osserva nell’invisibile e nello spirituale. Ma è essenziale che il pittore d’icone si accosti al suo lavoro con la consapevolezza di essere un lavoratore di un’opera sacra, un testimone della bellezza celeste. Alcune delle icone presenti in chiesa sono state costruite dai monaci del monte Athos con una tecnica particolare che fa risplendere la luce dell’oro, ma la loro sacralità è data anche dall’atteggiamento religioso e dalle preghiere con cui quei pittori si sono messi all’opera. Questa spiegazione ha aperto la curiosità verso questa cultura in cui attraverso l’arte si vuol rappresentare l’invisibile5.

L’incontro si è concluso con un piccolo rinfresco nel parco circostante la chiesa, a segnalare non solo che è stata data una seconda vita a un monumento storico pieno di ricordi per i mestrini, ma che dentro e attorno a esso si è ricreato un contesto di socialità e relazioni.

Tra tante chiese chiuse, una chiesa riaperta

Tommaso Montanari, nel libro Chiese chiuse6 documenta la quantità di chiese italiane chiuse, abbandonate, in rovina, derubate, adibite ad altra funzione. A Venezia si contano 30 chiese storiche in abbandono7 e 16 chiese in cui per entrare, se non si è residenti, bisogna pagare un biglietto.

In conclusione l’autore non si chiede cosa possiamo fare noi per le antiche chiese, ma cosa possono fare loro per noi e così risponde:

col loro silenzio secolare, offrono una pausa al nostro caos

con la loro gratuità, contestano la nostra fede nel mercato

con la loro dimensione collettiva, mettono in crisi il nostro individualismo

con la loro compresenza dei tempi, smascherano la dittatura del presente

con la loro povertà, con il loro abbandono testimoniano contro la religione del successo8.

Anche la chiesetta dell’ex-ospedale di Mestre, ora chiesa ortodossa della Natività della Ss. Madre di Dio, apre a un altro tempo e spazio, come scrive Montanari.

Non solo. Attraverso i cambiamenti legati alla sua riapertura:

aiuta la conoscenza e l’incontro tra mondi, sensibilità, linguaggi diversi, come testimoniano i due incontri;

rovescia i pregiudizi su chi aiuta e chi è aiutato: la comunità moldava l’ha riportata in vita e se ne prende cura senza chiedere nulla in cambio, anzi migliorando il benessere della città;

fa intravedere i conflitti del presente e possibili modi non violenti di affrontarli.

Maurizio Ambrosini ha condotto e pubblicato nel 2022 la prima ricerca organica in Italia sul pluralismo religioso legato all’immigrazione9. Dalla ricerca, svolta in Lombardia, emerge che uno degli apporti più visibili e duraturi dell’immigrazione è il cambiamento del panorama religioso dei Paesi riceventi. Oggi, scrive Ambrosini: Il pluralismo religioso indotto dall’immigrazione rappresenta una pietra d’inciampo sia per le maggioranze secolarizzate e religiosamente indifferenti, sia per i sostenitori di religioni storiche svuotate di significato spirituale e riconvertite in simulacri di appartenenza culturale. Per gli uni le religioni importate dagli immigrati rappresentano un ritorno del religioso nello spazio pubblico, per gli altri un cuneo piantato nella pretesa di fare dell’omogeneità religiosa la base della cultura condivisa…Ma la tesi di una progressiva e ineluttabile secolarizzazione del paese deve fare i conti con le novità indotte dalla fioritura di minoranze attive che disegnano inediti paesaggi religiosi10.

Paesaggi ed esperienze che possono diventare risorse per la coesione sociale e lo scambio interculturale, come è stato per l’incontro tra il gruppo Voci fuori luogo di storiAmestre e la comunità moldava che si riunisce nella chiesetta dell’ex ospedale di Mestre.

NOTE 

1Il gruppo di ricerca Voci fuori luogo si è costituito nel 2021 all’interno dell’associazione storiAmestre con l’interesse di esplorare i cambiamenti del territorio legati alla presenza di cittadine e cittadini provenienti da altri luoghi.

2La Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia fa capo attualmente al Metropolita Polykarpos presso la Cattedrale di S. Giorgio dei Greci a Venezia. Nel novembre del 1991, con decisione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, la chiesa è diventata cattedrale dell'Arcidiocesi ortodossa d'Italia e Malta.

La chiesa di San Giorgio fu costruita tra il 1539 e il 1573, dopo un lungo periodo di richieste e di contrasti, grazie ai contributi finanziari dei membri della Confraternita dei Greci Ortodossi e di altri greci, in primis marinai in visita a Venezia.

La Confraternita dei Greci Ortodossi è molto antica, si è costituita a Venezia il 28 novembre del 1498 tra i greci della diaspora giunti in seguito alla conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi (1453). Ma i legami fra la città e il mondo greco sono molto più antichi, risalgono all’XI secolo, quando i Veneziani aiutarono i Greci contro i Normanni che stavano per attaccare l'impero bizantino. In cambio l'imperatore Alessandro Comneno nel 1082 concesse ai mercanti veneziani la preminenza su tutti gli altri, segnando l'inizio della potenza politica, militare e commerciale di Venezia nel Levante.

3Dopo il trasferimento dell’ospedale a Zelarino, l’Ulss ha venduto l’ex compendio Umberto I alla società trentina DNG. Nel novembre 2013, in seguito alla convenzione con la proprietà Dng, la chiesetta e il parco antistante insieme agli altri edifici storici passano al Comune. L’anno seguente il commissario prefettizio Zappalorto, che amministra il Comune dopo le dimissioni della giunta Orsoni, concede la chiesetta in comodato d’uso alla Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia ed Esarcato per l’Europa Meridionale. Nel 2017 la Dng ha fatto fallimento, nel 2019 nella proprietà è subentrato Francesco Canella della catena di supermercati Alì.

4Si veda: L’ospedale Umberto I di Mestre, 1906-2008, in Claudio Pasqual, Note mestrine. Cose viste, interventi, ricerche, Quaderni di storiAmestre, 18, Cierre 2022.

5 Per capire il significato religioso e filosofico delle icone e dei rituali della loro costruzione, si veda: Pavel Aleksandrovic Florenskij, Le porte regali. Saggio sull'icona, Adelphi, 2021

6Tomaso Montanari, Chiese chiuse, Einaudi 2021.

7 si veda: Sara Marini, Micol Roversi Monaco, Elisa Monaci, Guida alle chiese «chiuse» di Venezia, Libria, 2020.

8Tomaso Montanari, ibidem, cap. Conclusione, p.5.

9Maurizio Ambrosini, Paolo Naso, Samuele Davide Molli ( a cura di), Quando gli immigrati vogliono pregare

Comunità, pluralismo, welfare, il Mulino 2022. La ricerca è stata promossa dal Centro studi Confronti di Roma, dalla Chiesa valdese-metodista e dalla Fondazione Lelio e Lisli Basso,

10Citazione da: Maurizio Ambrosini, Gli immigrati e il pluralismo religioso in Italia. I risultati di una ricerca, in Dialoghi Mediterranei, Periodico bimestrale dell'Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo, 1 gennaio 2023.

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Un bene comune non è uno spazio vuoto: il campo di calcio del Real San Marco.

31/05/2023

di Paola Sartori

Paola Sartori presenta, attraverso testimonianze e dati quantitativi, il valore civico del progetto di Villaggio San Marco elaborato dagli architetti Luigi Piccinato, Giuseppe Samonà, Egle Renata Trincanato e la funzione sociale dello spazio, vincolato dal progetto a verde pubblico, dove per decenni si è allenato il Real San Marco e dove ora la Giunta del Comune di Venezia, con una variante urbanistica al piano, ha dato il via libera alla costruzione di una Torre ad uso commerciale ed abitativo, togliendo un bene pubblico alla città.   

L'intervento continua l'analisi storica di questo spazio conteso, avviata nel sito dalla lettera di Lucia Gianolla, dagli interventi all’assemblea pubblica del 3 maggio 2021 che si è opposta al progetto di Torre in quanto priverebbe il quartiere e la città di uno spazio pubblico dove poter sviluppare relazioni sociali e dall'articolo di Piero Brunello, Quartieri invisibili, città immaginate. Considerazioni a partire dall’assemblea del Villaggio San Marco, (3 maggio 2021).

 

 

In questi ultimi mesi molte sono le questioni che fanno discutere i cittadini della terraferma veneziana e soprattutto di Mestre: dai problemi legati allo spaccio di eroina e alla sicurezza variamente intesa, fino a quelli inerenti l’idea urbanistica e sociale di città: dal Buco dell’ex ospedale Umberto Primo1, alla bocciatura europea per il finanziamento, via fondi PNNR, del così detto Bosco dello sport alla prospettata Torre del Villaggio San Marco.

Sono temi non nuovi per la città, che facilmente riportano alla mente altri interventi drasticamente problematici, tipo l’abbattimento in una notte del Parco Ponci2. L’idea che ha dominato la Mestre del secondo dopoguerra sembra permanere a dispetto di ogni cambiamento culturale, sociale ed economico: un territorio da “occupare” perché privo di significatività, storia e memoria e chissà, forse allora, anche di significative interlocuzioni da parte dei suoi cittadini.

Rispetto alla seconda metà del Novecento però oggi, a Mestre, le prese di posizione di diversificati gruppi di cittadini non sono mancate soprattutto relativamente al progetto di costruire una Torre di 70 metri, poi ridotti a 60, nel bel mezzo del Villaggio San Marco, considerato che, come ben scriveva Piero Brunello in questo sito, “Il campo su cui un costruttore ha messo gli occhi per costruire una torre di oltre 70 metri, con l’appoggio della Giunta comunale di Venezia, non è uno spazio vuoto e quindi da edificare, bensì un’area pensata per il quartiere fin dal progetto costitutivo del Villaggio San Marco nei primi anni Cinquanta del Novecento”3. Si tratta infatti di un terreno destinato a “verde” che l’INA Casa, nel 1973, concede in rapporto di occupazione d’area alla società calcistica Real San Marco, sorta nel 1959 e che da qualche anno perseguiva il “sogno proibito” di avere un campo nel quartiere. Infatti fino ad allora i giocatori avevano utilizzato per gli allenamenti, cambiandosi sotto i tralicci dell’Enel, il così detto campo ex Domenichelli, situato in quella che oggi è via Sansovino, bretella che collega Viale San Marco a Viale Ancona. Per le partite casalinghe di campionato (terza o seconda categoria) la società, con le sue varie squadre, era costretta a peregrinare in diversi campi della provincia di Venezia 4.

Prime partite del Real San Marco nel campo Bellio cintato da una corda.

La vicenda di questa prospettata Torre si intreccia variamente con altre mie lontane ricerche ed esperienze. Da un lato mi torna la memoria di alcune ricerche fatte alla fine degli anni Ottanta proprio sul Villaggio San Marco e i processi di inserimento e integrazione dei suoi primi abitanti, pubblicate nel volume La città invisibile. Storie di Mestre5. Dall’altro non posso non ricordare le mie esperienze giovanili, dalla metà degli anni Settanta alla metà anni Ottanta, con le attività e i gruppi che ruotavano proprio attorno al campo di calcio “E. Bellio” del Real San Marco e alla funzione sociale che la presenza della società calcistica, con le sue diverse squadre, ha svolto, in primis per gli abitanti del Villaggio, ma anche per molti altri ragazzi provenienti da diverse zone della città.

Provo quindi a mettere a fuoco alcuni elementi che, a mio parere, rinforzano la rappresentazione che lo spazio di quel campo di calcio, attualmente in disuso perché in attesa di bonifica, non è un “vuoto” che si possa riempire con edifici più o meno alti, ma uno “spazio potenziale” che dovrebbe svolgere la funzione sociale di incontro, scambio e reciproca conoscenza per cui allora era nato e di cui l’oggi, così frammentato e a rischio disgregazione, tanto necessiterebbe per la vita quotidiana dei residenti nel Villaggio, ma anche nell’intera città.

Senza voler tornare sul valore urbanistico del Villaggio San Marco e del progetto elaborato e realizzato allora da Piccinato, Samonà e Trincanato, che altri hanno già ricordato e illustrato, vorrei soffermarmi su come il Villaggio sia stato il primo progetto locale dichiaratamente pensato, e poi costruito, con l’obiettivo di accogliere e integrare nello stesso contesto abitativo persone e famiglie di diverse provenienze.

Molte sono le aree di Mestre e di Marghera sorte negli anni Sessanta e Settanta per dare “casa” ai lavoratori che arrivavano qui per lavorare e alle loro famiglie. Tuttavia nessun altro quartiere è stato progettato pensando ad una struttura urbanistica che metta al centro la vita extralavorativa delle persone, per favorire scambi sociali quotidiani, per sostenere la reciproca conoscenza e l’integrazione, per vivere meglio insieme. Era esplicita, nel progetto, la presenza di spazi intesi come “beni comuni”: un quartiere composto di piccoli nuclei detti “corte” quale prosecuzione della casa all’aperto per favorire così l’integrazione con gli altri, permettere che gli abitanti si riconoscano, si ritrovino all’aperto e vivano assieme6.

L’obiettivo di supportare, attraverso l’impianto urbanistico, i processi di conoscenza e socializzazione tra chi sarebbe andato ad abitare, non era, e non è nemmeno oggi, irrilevante se guardiamo alla provenienza di coloro che per primi tra il 1954 e il 1957 sono andati ad abitare al Villaggio: nelle sole corti femminili e maschili e in piazza Canova, vivevano circa 2400 unità pari a 527 nuclei familiari distribuiti in 492 numeri civici. Una popolazione il cui 38,5% era costituito di bambini e ragazzi di età inferiore ai 14 anni, giusto per dare un significato alla presenza di spazi come quello del campo di calcio.

Se guardiamo, poi, alle provenienze territoriali dei primi abitanti scopriamo che il 40% dei capifamiglia indica come luogo di nascita Venezia-estuario, il 23% Mestre-terraferma, ma un non trascurabile 37% proviene da territori vari tra cui la campagna trevigiana, il sud, altre regioni d’Italia e l’ex Jugoslavia. Provenienze extra territoriali di persone di non recentissima immigrazione, stante che circa l’88 di questi risultava presente già da qualche tempo nel comune di Venezia. Presenza che però non impedisce che “le diverse abitudini di vita, acquisite precedentemente in paese oppure in città, contribuiscano a rendere più eterogeneo il quartiere”7. Eterogeneità confermata anche dai dati relativi al profilo occupazionale dei capifamiglia che a fronte di un 75% di occupati nell’industria mostra un, comunque significativo, 25% di occupati nel terziario.

Trovo assai interessante che questa eterogeneità sia stata pensata e ritenuta un’opportunità fin dalla progettazione del quartiere, perché la storia successiva non solo di Mestre, ma sicuramente italiana ed europea, evidenzia il rischio di inserimenti monoculturali nello stesso quartiere e/o condominio come avvenuto nei decenni successivi. Se intendiamo per cultura non solo le provenienze territoriali/nazionali, ma anche le culture di appartenenza sociale, gli inserimenti monoculturali hanno prodotto isolamento, ghettizzazione e non di rado fenomeni di scontro tra il “dentro” e il “fuori”.

Mi chiedo se si possa imparare qualcosa dalla storia. Aver pensato, allora, di poter accompagnare i processi di interazione e integrazione sociale anche attraverso una scelta urbanistica orientata all’incontro, rappresenta un esempio assai evoluto di intervento di edilizia pubblica. Sottolineo il piano della struttura urbanistica, perché poi, come hanno variamente testimoniato i primi abitanti, il processo di sviluppo di strade, servizi, scuole non è stato rapido e ha causato non pochi disagi alla popolazione, che però ha potuto viverli come “necessari” al processo di crescita umana e sviluppo lavorativo. In questa situazione di disagio, in cui c’erano paludi e dune al posto del viale San Marco e acqua e fango nella stagione invernale, viene in soccorso la struttura urbanistica del quartiere che offre un luogo che privilegia il rapporto con gli altri, almeno con i vicini: la corte rappresenta innanzitutto il luogo di gioco per eccellenza, vissuto dalle madri come posto sicuro, tranquillo dove lasciare i figli, che diventava motivo per gli adulti di sedersi fuori della porta di casa e chiacchierare così tra vicini: “ci si sedeva fuori, seduti sui gradini, si stava fino a mezzanotte, fino a che giocavano, a volte si giocava insieme, altrimenti si stava qua, si ciacolava, si passava la sera…..Con l’arrivo della televisione in alcuni casi la corte diventa un prolungamento della casa che possiede l’apparecchio: andavamo là la sera, con i scagnei, ci sedevamo fuori della porta, perché la mettevano in entrata la televisione”8.

Quel progetto urbanistico aveva pensato anche ad un altro “bene comune”: uno spazio verde che sarebbe potuto diventare ulteriore luogo di incontro e scambio e che, divenuto campo di calcio, ha in effetti esercitato la sua funzione per decenni. Il campo, che si trova nel mezzo del territorio definito complessivamente Villaggio San Marco, fa parte di una zona che comprende la chiesa, il patronato, l’asilo nido, la scuola dell’infanzia, il servizio adolescenti, e la ex sede del quartiere ora sede di ambulatori medici, servizi sociali e spazi associativi, configurando un territorio “di passaggio” tra le corti del Villaggio e i Quartieri San Teodoro e Aretusa, dedicato all’incontro sociale, alla crescita dei più piccoli e dei più giovani.

Quell’area verde ha radunato gruppi di diverse età, dai piccoli pulcini alla prima squadra, passando per i giovanissimi, gli esordienti, gli allievi, favorendo con l’attività sportiva la crescita, il confronto, l’uscita dall’isolamento, l’autostima, l’acquisizione delle regole sociali. Ma soprattutto, all’interno delle squadre dei più giovani, ha permesso a ciascun ragazzo di sperimentare la convivenza tra diversi. Diversi perché il campo ha accolto non solo abitanti del Villaggio, ma molti ragazzi provenienti da diverse zone cittadine, compreso negli anni Novanta il campo di accoglienza dei Rom kossovari di San Giuliano.

Tutti ugualmente desiderosi di giocare, seppur differenti tra loro per contesti di vita: da quelli più consueti della classe operaia, a coloro che venivano da famiglie in condizioni di disagio, fino a quelle con genitori insegnanti o dirigenti. Durante gli allenamenti e le partite, avvenivano incontri e scambi, in primis tra ragazzi, ma anche tra gli accompagnatori adulti. Confronti che talvolta diventavano anche scontri, soprattutto tra gli adolescenti, ma che, se ben guidati dagli allenatori, potevano rappresentare un’occasione di sperimentare le possibilità evolutive, individuali e collettive, insite nei conflitti così detti “costruttivi”.

Ecco perché, quando un paio di anni fa si è saputo del progetto di costruire una Torre ad uso commerciale ed abitativo facendo una variante urbanistica al piano che vincolava lo spazio “a verde”, sono rimasta interdetta.

Da anni si aspettava una bonifica che avrebbe permesso di riprogettare uno spazio ad uso sociale per gli abitanti non solo del quartiere, ma dell’intera città, stante la favorevole ubicazione territoriale dello spazio che ora si trova proprio sulla strada che collega il centro cittadino al parco di San Giuliano, affiancata da una preziosa pista ciclabile.

Forse ingenuamente, forse a causa del mio impegno nei servizi sociali per l’infanzia e l’adolescenza, avevo pensato che sarebbe stato riprogettato uno spazio ad uso sportivo nuovo, magari attraverso un processo di co-progettazione con bambine e bambini, ragazze e ragazzi, giovani e adulti, quasi a compensazione dei molti spazi che sono stati via via soppressi nel centro cittadino.

Il ripetersi di logiche del passato credo sia da considerarsi non rispondente alle attuali esigenze dei cittadini, se non pericoloso. Il lavoro socio-culturale realizzato in città negli ultimi decenni può fungere da base per capire quali siano davvero i bisogni delle nuove generazioni e quali siano gli spazi sociali, ricreativi e di incontro utili agli abitanti di diverse età per sostenerli nel diventare, insieme, cittadini del mondo di oggi.

Che dire? Credo che spetti non solo agli abitanti del Villaggio San Marco mostrare l’importanza di bonificare lo spazio verde e di riprogettarlo a uso dei cittadini, ma a tutta la città e soprattutto a chi potrebbe variamente contribuire ad evidenziare l’importanza urbanistica, storica e sociale di quel territorio. Un territorio che va valorizzato e non stravolto, che andrebbe attualizzato sulle esigenze degli abitanti che non sono, evidentemente, quelle rappresentate dalla costruzione di una Torre di 60 metri ad uso commerciale e residenziale di lusso.

NOTE

1 Si veda in questo sito, 9 maggio 2023, l’articolo di Claudio Pasqual: La chiesetta dell’ex ospedale Umberto I rivive nel “buco nero” di Mestre.

2 La distruzione del parco Ponci in una notte viene raccontata da Stefano Pittarello, in Il sacco bello, CLEUP 2017.

3 Piero Brunello, Quartieri invisibili, città immaginate. Considerazioni a partire dall’assemblea del Villaggio San Marco, (3 maggio 2021), pubblicato su questo sito nella primavera del 2021.

4 Informazioni tratte dal fascicolo 1959-2009 Real San Marco, 50° anniversario- Protagonisti nella storia del calcio a Venezia, redatto a cura di Franco Landi nel 2009.

5 La città invisibile. Storie di Mestre. Atti del Convegno 25-27 marzo 1988 realizzato da storiAmestre in collaborazione con Mce, a cura di D. Canciani, Arsenale, Venezia 1990 . Atti che presentano interventi di P. Brunello, S. Barizza, G. Sarto, F. Piva, M. Mosena Zanin, D. Canciani, R. Blasi Burzotta, C. Puppini, G. Facca, P. Sartori, R. Pellegrinotti, M. T. Sega.

6 P. Sartori, “ I primi anni del Villaggio San Marco”, in La città invisibile. Storie di Mestre, Arsenale Venezia 1990, pg.107.

7 Ibidem, p.109.

8 Ibidem, p.111.

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