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Un bene comune non è uno spazio vuoto: il campo di calcio del Real San Marco.

31/05/2023

di Paola Sartori

Paola Sartori presenta, attraverso testimonianze e dati quantitativi, il valore civico del progetto di Villaggio San Marco elaborato dagli architetti Luigi Piccinato, Giuseppe Samonà, Egle Renata Trincanato e la funzione sociale dello spazio, vincolato dal progetto a verde pubblico, dove per decenni si è allenato il Real San Marco e dove ora la Giunta del Comune di Venezia, con una variante urbanistica al piano, ha dato il via libera alla costruzione di una Torre ad uso commerciale ed abitativo, togliendo un bene pubblico alla città.   

L'intervento continua l'analisi storica di questo spazio conteso, avviata nel sito dalla lettera di Lucia Gianolla, dagli interventi all’assemblea pubblica del 3 maggio 2021 che si è opposta al progetto di Torre in quanto priverebbe il quartiere e la città di uno spazio pubblico dove poter sviluppare relazioni sociali e dall'articolo di Piero Brunello, Quartieri invisibili, città immaginate. Considerazioni a partire dall’assemblea del Villaggio San Marco, (3 maggio 2021).

 

 

In questi ultimi mesi molte sono le questioni che fanno discutere i cittadini della terraferma veneziana e soprattutto di Mestre: dai problemi legati allo spaccio di eroina e alla sicurezza variamente intesa, fino a quelli inerenti l’idea urbanistica e sociale di città: dal Buco dell’ex ospedale Umberto Primo1, alla bocciatura europea per il finanziamento, via fondi PNNR, del così detto Bosco dello sport alla prospettata Torre del Villaggio San Marco.

Sono temi non nuovi per la città, che facilmente riportano alla mente altri interventi drasticamente problematici, tipo l’abbattimento in una notte del Parco Ponci2. L’idea che ha dominato la Mestre del secondo dopoguerra sembra permanere a dispetto di ogni cambiamento culturale, sociale ed economico: un territorio da “occupare” perché privo di significatività, storia e memoria e chissà, forse allora, anche di significative interlocuzioni da parte dei suoi cittadini.

Rispetto alla seconda metà del Novecento però oggi, a Mestre, le prese di posizione di diversificati gruppi di cittadini non sono mancate soprattutto relativamente al progetto di costruire una Torre di 70 metri, poi ridotti a 60, nel bel mezzo del Villaggio San Marco, considerato che, come ben scriveva Piero Brunello in questo sito, “Il campo su cui un costruttore ha messo gli occhi per costruire una torre di oltre 70 metri, con l’appoggio della Giunta comunale di Venezia, non è uno spazio vuoto e quindi da edificare, bensì un’area pensata per il quartiere fin dal progetto costitutivo del Villaggio San Marco nei primi anni Cinquanta del Novecento”3. Si tratta infatti di un terreno destinato a “verde” che l’INA Casa, nel 1973, concede in rapporto di occupazione d’area alla società calcistica Real San Marco, sorta nel 1959 e che da qualche anno perseguiva il “sogno proibito” di avere un campo nel quartiere. Infatti fino ad allora i giocatori avevano utilizzato per gli allenamenti, cambiandosi sotto i tralicci dell’Enel, il così detto campo ex Domenichelli, situato in quella che oggi è via Sansovino, bretella che collega Viale San Marco a Viale Ancona. Per le partite casalinghe di campionato (terza o seconda categoria) la società, con le sue varie squadre, era costretta a peregrinare in diversi campi della provincia di Venezia 4.

Prime partite del Real San Marco nel campo Bellio cintato da una corda.

La vicenda di questa prospettata Torre si intreccia variamente con altre mie lontane ricerche ed esperienze. Da un lato mi torna la memoria di alcune ricerche fatte alla fine degli anni Ottanta proprio sul Villaggio San Marco e i processi di inserimento e integrazione dei suoi primi abitanti, pubblicate nel volume La città invisibile. Storie di Mestre5. Dall’altro non posso non ricordare le mie esperienze giovanili, dalla metà degli anni Settanta alla metà anni Ottanta, con le attività e i gruppi che ruotavano proprio attorno al campo di calcio “E. Bellio” del Real San Marco e alla funzione sociale che la presenza della società calcistica, con le sue diverse squadre, ha svolto, in primis per gli abitanti del Villaggio, ma anche per molti altri ragazzi provenienti da diverse zone della città.

Provo quindi a mettere a fuoco alcuni elementi che, a mio parere, rinforzano la rappresentazione che lo spazio di quel campo di calcio, attualmente in disuso perché in attesa di bonifica, non è un “vuoto” che si possa riempire con edifici più o meno alti, ma uno “spazio potenziale” che dovrebbe svolgere la funzione sociale di incontro, scambio e reciproca conoscenza per cui allora era nato e di cui l’oggi, così frammentato e a rischio disgregazione, tanto necessiterebbe per la vita quotidiana dei residenti nel Villaggio, ma anche nell’intera città.

Senza voler tornare sul valore urbanistico del Villaggio San Marco e del progetto elaborato e realizzato allora da Piccinato, Samonà e Trincanato, che altri hanno già ricordato e illustrato, vorrei soffermarmi su come il Villaggio sia stato il primo progetto locale dichiaratamente pensato, e poi costruito, con l’obiettivo di accogliere e integrare nello stesso contesto abitativo persone e famiglie di diverse provenienze.

Molte sono le aree di Mestre e di Marghera sorte negli anni Sessanta e Settanta per dare “casa” ai lavoratori che arrivavano qui per lavorare e alle loro famiglie. Tuttavia nessun altro quartiere è stato progettato pensando ad una struttura urbanistica che metta al centro la vita extralavorativa delle persone, per favorire scambi sociali quotidiani, per sostenere la reciproca conoscenza e l’integrazione, per vivere meglio insieme. Era esplicita, nel progetto, la presenza di spazi intesi come “beni comuni”: un quartiere composto di piccoli nuclei detti “corte” quale prosecuzione della casa all’aperto per favorire così l’integrazione con gli altri, permettere che gli abitanti si riconoscano, si ritrovino all’aperto e vivano assieme6.

L’obiettivo di supportare, attraverso l’impianto urbanistico, i processi di conoscenza e socializzazione tra chi sarebbe andato ad abitare, non era, e non è nemmeno oggi, irrilevante se guardiamo alla provenienza di coloro che per primi tra il 1954 e il 1957 sono andati ad abitare al Villaggio: nelle sole corti femminili e maschili e in piazza Canova, vivevano circa 2400 unità pari a 527 nuclei familiari distribuiti in 492 numeri civici. Una popolazione il cui 38,5% era costituito di bambini e ragazzi di età inferiore ai 14 anni, giusto per dare un significato alla presenza di spazi come quello del campo di calcio.

Se guardiamo, poi, alle provenienze territoriali dei primi abitanti scopriamo che il 40% dei capifamiglia indica come luogo di nascita Venezia-estuario, il 23% Mestre-terraferma, ma un non trascurabile 37% proviene da territori vari tra cui la campagna trevigiana, il sud, altre regioni d’Italia e l’ex Jugoslavia. Provenienze extra territoriali di persone di non recentissima immigrazione, stante che circa l’88 di questi risultava presente già da qualche tempo nel comune di Venezia. Presenza che però non impedisce che “le diverse abitudini di vita, acquisite precedentemente in paese oppure in città, contribuiscano a rendere più eterogeneo il quartiere”7. Eterogeneità confermata anche dai dati relativi al profilo occupazionale dei capifamiglia che a fronte di un 75% di occupati nell’industria mostra un, comunque significativo, 25% di occupati nel terziario.

Trovo assai interessante che questa eterogeneità sia stata pensata e ritenuta un’opportunità fin dalla progettazione del quartiere, perché la storia successiva non solo di Mestre, ma sicuramente italiana ed europea, evidenzia il rischio di inserimenti monoculturali nello stesso quartiere e/o condominio come avvenuto nei decenni successivi. Se intendiamo per cultura non solo le provenienze territoriali/nazionali, ma anche le culture di appartenenza sociale, gli inserimenti monoculturali hanno prodotto isolamento, ghettizzazione e non di rado fenomeni di scontro tra il “dentro” e il “fuori”.

Mi chiedo se si possa imparare qualcosa dalla storia. Aver pensato, allora, di poter accompagnare i processi di interazione e integrazione sociale anche attraverso una scelta urbanistica orientata all’incontro, rappresenta un esempio assai evoluto di intervento di edilizia pubblica. Sottolineo il piano della struttura urbanistica, perché poi, come hanno variamente testimoniato i primi abitanti, il processo di sviluppo di strade, servizi, scuole non è stato rapido e ha causato non pochi disagi alla popolazione, che però ha potuto viverli come “necessari” al processo di crescita umana e sviluppo lavorativo. In questa situazione di disagio, in cui c’erano paludi e dune al posto del viale San Marco e acqua e fango nella stagione invernale, viene in soccorso la struttura urbanistica del quartiere che offre un luogo che privilegia il rapporto con gli altri, almeno con i vicini: la corte rappresenta innanzitutto il luogo di gioco per eccellenza, vissuto dalle madri come posto sicuro, tranquillo dove lasciare i figli, che diventava motivo per gli adulti di sedersi fuori della porta di casa e chiacchierare così tra vicini: “ci si sedeva fuori, seduti sui gradini, si stava fino a mezzanotte, fino a che giocavano, a volte si giocava insieme, altrimenti si stava qua, si ciacolava, si passava la sera…..Con l’arrivo della televisione in alcuni casi la corte diventa un prolungamento della casa che possiede l’apparecchio: andavamo là la sera, con i scagnei, ci sedevamo fuori della porta, perché la mettevano in entrata la televisione”8.

Quel progetto urbanistico aveva pensato anche ad un altro “bene comune”: uno spazio verde che sarebbe potuto diventare ulteriore luogo di incontro e scambio e che, divenuto campo di calcio, ha in effetti esercitato la sua funzione per decenni. Il campo, che si trova nel mezzo del territorio definito complessivamente Villaggio San Marco, fa parte di una zona che comprende la chiesa, il patronato, l’asilo nido, la scuola dell’infanzia, il servizio adolescenti, e la ex sede del quartiere ora sede di ambulatori medici, servizi sociali e spazi associativi, configurando un territorio “di passaggio” tra le corti del Villaggio e i Quartieri San Teodoro e Aretusa, dedicato all’incontro sociale, alla crescita dei più piccoli e dei più giovani.

Quell’area verde ha radunato gruppi di diverse età, dai piccoli pulcini alla prima squadra, passando per i giovanissimi, gli esordienti, gli allievi, favorendo con l’attività sportiva la crescita, il confronto, l’uscita dall’isolamento, l’autostima, l’acquisizione delle regole sociali. Ma soprattutto, all’interno delle squadre dei più giovani, ha permesso a ciascun ragazzo di sperimentare la convivenza tra diversi. Diversi perché il campo ha accolto non solo abitanti del Villaggio, ma molti ragazzi provenienti da diverse zone cittadine, compreso negli anni Novanta il campo di accoglienza dei Rom kossovari di San Giuliano.

Tutti ugualmente desiderosi di giocare, seppur differenti tra loro per contesti di vita: da quelli più consueti della classe operaia, a coloro che venivano da famiglie in condizioni di disagio, fino a quelle con genitori insegnanti o dirigenti. Durante gli allenamenti e le partite, avvenivano incontri e scambi, in primis tra ragazzi, ma anche tra gli accompagnatori adulti. Confronti che talvolta diventavano anche scontri, soprattutto tra gli adolescenti, ma che, se ben guidati dagli allenatori, potevano rappresentare un’occasione di sperimentare le possibilità evolutive, individuali e collettive, insite nei conflitti così detti “costruttivi”.

Ecco perché, quando un paio di anni fa si è saputo del progetto di costruire una Torre ad uso commerciale ed abitativo facendo una variante urbanistica al piano che vincolava lo spazio “a verde”, sono rimasta interdetta.

Da anni si aspettava una bonifica che avrebbe permesso di riprogettare uno spazio ad uso sociale per gli abitanti non solo del quartiere, ma dell’intera città, stante la favorevole ubicazione territoriale dello spazio che ora si trova proprio sulla strada che collega il centro cittadino al parco di San Giuliano, affiancata da una preziosa pista ciclabile.

Forse ingenuamente, forse a causa del mio impegno nei servizi sociali per l’infanzia e l’adolescenza, avevo pensato che sarebbe stato riprogettato uno spazio ad uso sportivo nuovo, magari attraverso un processo di co-progettazione con bambine e bambini, ragazze e ragazzi, giovani e adulti, quasi a compensazione dei molti spazi che sono stati via via soppressi nel centro cittadino.

Il ripetersi di logiche del passato credo sia da considerarsi non rispondente alle attuali esigenze dei cittadini, se non pericoloso. Il lavoro socio-culturale realizzato in città negli ultimi decenni può fungere da base per capire quali siano davvero i bisogni delle nuove generazioni e quali siano gli spazi sociali, ricreativi e di incontro utili agli abitanti di diverse età per sostenerli nel diventare, insieme, cittadini del mondo di oggi.

Che dire? Credo che spetti non solo agli abitanti del Villaggio San Marco mostrare l’importanza di bonificare lo spazio verde e di riprogettarlo a uso dei cittadini, ma a tutta la città e soprattutto a chi potrebbe variamente contribuire ad evidenziare l’importanza urbanistica, storica e sociale di quel territorio. Un territorio che va valorizzato e non stravolto, che andrebbe attualizzato sulle esigenze degli abitanti che non sono, evidentemente, quelle rappresentate dalla costruzione di una Torre di 60 metri ad uso commerciale e residenziale di lusso.

NOTE

1 Si veda in questo sito, 9 maggio 2023, l’articolo di Claudio Pasqual: La chiesetta dell’ex ospedale Umberto I rivive nel “buco nero” di Mestre.

2 La distruzione del parco Ponci in una notte viene raccontata da Stefano Pittarello, in Il sacco bello, CLEUP 2017.

3 Piero Brunello, Quartieri invisibili, città immaginate. Considerazioni a partire dall’assemblea del Villaggio San Marco, (3 maggio 2021), pubblicato su questo sito nella primavera del 2021.

4 Informazioni tratte dal fascicolo 1959-2009 Real San Marco, 50° anniversario- Protagonisti nella storia del calcio a Venezia, redatto a cura di Franco Landi nel 2009.

5 La città invisibile. Storie di Mestre. Atti del Convegno 25-27 marzo 1988 realizzato da storiAmestre in collaborazione con Mce, a cura di D. Canciani, Arsenale, Venezia 1990 . Atti che presentano interventi di P. Brunello, S. Barizza, G. Sarto, F. Piva, M. Mosena Zanin, D. Canciani, R. Blasi Burzotta, C. Puppini, G. Facca, P. Sartori, R. Pellegrinotti, M. T. Sega.

6 P. Sartori, “ I primi anni del Villaggio San Marco”, in La città invisibile. Storie di Mestre, Arsenale Venezia 1990, pg.107.

7 Ibidem, p.109.

8 Ibidem, p.111.

Archiviato in:La città invisibile, Paola Sartori, Senza categoria Contrassegnato con: bene comune, Mestre, urbanistica, Villaggio San Marco

La chiesetta dell’ex ospedale Umberto I rivive nel “buco nero” di Mestre

09/05/2023

di Claudio Pasqual

Nella mostra ex Umberto I: il buco in mostra (26 aprile-3 maggio 2023) è stata esposta la locandina dell’incontro pubblico La città che cambia: la Comunità Moldava fa rivivere uno spazio abbandonato, organizzato il 16 ottobre 2022 da storiAmestre-Gruppo Voci fuori luogo e dalla Comunità Moldava della chiesa ortodossa della Natività della Madre di Dio.

Pubblichiamo una rielaborazione dell’intervento sulla storia della chiesetta e dell'area dell'ex ospedale Umberto I, fatto in quell’incontro dal nostro socio Claudio Pasqual, del quale potete trovare nel sito anche un articolo del 14/11/2013 dal titolo: L'ospedale Umberto I di Mestre, 1906-2008.

Ricordiamo che una storia dell’ex Umberto I è presente nel quaderno 18 di storiAmestre: Claudio Pasqual, Note mestrine. Cose viste, interventi, ricerche, Cierre, Sommacampagna (Vr) 2022, pp. 177-87. 

 

A inizio Novecento Mestre ebbe finalmente il suo ospedale. Intitolato alla memoria del re d’Italia Umberto I, esso fu inaugurato il 16 aprile 1906.  Il sito prescelto per il nosocomio era stato individuato in località denominata Castelvecchio – in età medievale qui era sorto il primo castello di Mestre – un’area ancora agricola a ridosso dell’abitato fra piazza Umberto I, ora Ferretto, a ponente e gli attuali Quattro Cantoni a nord-ovest1.

Inaugurazione dell'ospedale Umberto I. 1906
Un’antica via attraversava quest’area venendo dal Terraglio e, scavalcando con un ponte ad arco il ramo superiore del Marzenego, portava in piazza alla chiesa di San Lorenzo. Questa strada fu intercettata e cancellata dalle costruzioni dell’ospedale e sopravvive con due brevi tronconi, a nord come via Castelvecchio, a sud est come via Antonio da Mestre e via Ospedale.

All’inizio l’Umberto I constava di un solo edificio, quello che più avanti, dopo che altri se ne erano aggiunti, sarebbe diventato il padiglione intitolato a Tullio Pozzan, il medico primo direttore dell’ospedale. A questo edificio era annesso un preesistente fabbricato, adibito a “casa delle suore”.

 

Un luogo per la sofferenza dell’animo

Tuttavia passò pochissimo tempo perché a queste due si aggiungesse una terza costruzione. Alla sofferenza del corpo e dell’animo nella malattia l’ospedale opponeva il contrasto delle cure mediche, ma si giudicò necessario che offrisse ai degenti anche aiuto spirituale, mediante i conforti della religione. Serviva dunque un luogo di raccoglimento e di preghiera, un luogo consacrato al culto: una chiesa. E’ a questo punto che compare in scena Maria Berna. È grazie a questa "generosa benefattrice", alla sua donazione di 20.000 lire, che viene costruita la chiesetta dell’Umberto I.

Chi era Maria Berna? L’anziana signora – era nata nel 1844 – apparteneva a una delle famiglie più facoltose e in vista di Mestre. Suo fratello Pietro fu un personaggio di primissimo piano della vita pubblica cittadina. Di professione farmacista, cattolico osservante impegnato in politica, egli fu un esponente di spicco del “partito” clericomoderato locale. Ricoprì per tre volte la carica di sindaco di Mestre, sedette per un quarto di secolo in Consiglio e Deputazione provinciale, anche come suo presidente, lo si trova alla testa di vari enti e commissioni. All’ospedale teneva moltissimo, al punto che comprò e donò il terreno su cui avrebbe dovuto sorgere, fondò l’opera pia che lo doveva gestire, ne fu il primo presidente. Più che per l’Umberto I, però, è ricordato dai mestrini per l’istituto Berna, scuola e convitto, ora in via Bissuola, da lui fondato e che ne porta il nome.

Maria Berna era diplomata maestra. Nubile, dunque “libera da impegni familiari”, come il fratello animata da una profonda fede religiosa, si dedicava “con assiduo impegno e generosità” alle opere assistenziali e caritative. Durante la prima guerra mondiale, più che settantenne, sarà attiva nella Croce Rossa Italiana, prodigandosi a favore dei soldati feriti al fronte o malati2.

L’incarico di progettare la chiesetta fu assegnato all’ingegnere civile mestrino Giorgio Francesconi (1876-1963) che esercitava la libera professione ma era anche ingegnere comunale. Anche lui fu un personaggio importante in città. Lo vediamo infatti partecipare alla costruzione di mezza Mestre tra Ottocento e Novecento, come assiduo collaboratore dell’impresario edile Domenico Toniolo. Per intenderci, progetta il teatro, la galleria Umberto I – ora Matteotti -, il palazzo all’angolo tra le vie Rosa e Verdi (1912); suo è il grande palazzo Vivit in piazza Ferretto, all’imbocco di via Allegri (1923).

La chiesa, a una sola navata, fu realizzata in stile neogotico. L’inaugurazione cadde il 4 aprile 1908. Da allora essa seguì le vicende dell’Umberto I, lo vide ampliarsi, arricchirsi nei decenni di nuovi padiglioni e servizi. 

Ospedale Umberto I. 2004
Una storia ordinaria, interrotta da due momenti salienti, immortalati da altrettante lapidi affisse sulla facciata. Nel 1969, ricordando i fratelli Berna quali costruttori della chiesa (ma sbagliando l’anno, il 1909 per il 1908), Maria e Giuseppe Chiozza “rinnovarono questa casa di Dio a conforto di chi soffre. Laus Deo”. Ancor più memorabile fu l’evento del 17 marzo 1985, quando in questo spazio papa Giovanni Paolo II, in vista pastorale a Mestre, incontrò degenti e cittadini, “qui davanti a voi per guardarvi negli occhi e dirvi tutto l’affetto che ho per ciascuno di voi…”.

 

Chiusura dell’ospedale Umberto I

Alla dismissione dell’Umberto I, sostituito dal nuovo ospedale dell’Angelo a Zelarino, e alla cessione dell’area ai privati seguì la demolizione del complesso ospedaliero (2009). Demolizione parziale, perché fu deciso che assieme ai padiglioni storici fosse conservata anche la chiesetta.

Prima che le ruspe entrassero in azione, nel dicembre 2008 il Ministero per i Beni e le Attività Culturali aveva dichiarato di interesse culturale un unico manufatto dell’ospedale, il fabbricato denominato “ex casa delle suore”. Un muro di questo edificio appartiene forse alle costruzioni del castello medievale; all’interno, un locale con soffitto a volte è sorretto da due colonne duecentesche; in un altro ambiente altre due colonne risalgono probabilmente al Quattrocento. Strutture ed elementi architettonici, conservati e riutilizzati dopo demolizioni e rifacimenti, di manufatti ora scomparsi: la quattrocentesca casa-fattoria con barchessa dei monaci di San Salvador di Venezia, con annessa cappella dedicata a San Giacomo, sorta una volta abbattuto il castello vecchio e trasferito il possesso del fondo alla Chiesa; poi, tra fine Settecento e inizio Ottocento, una casa e corte a uso dei nuovi privati proprietari 3.

Sui beni di interesse culturale, quando messi in vendita, lo Stato ha il diritto di prelazione. Ma in questo caso lo Stato rinuncia, non acquisisce l’ex casa delle suore, quindi l’ULSS può trasferirla ai privati che hanno acquistato l’ex compendio Umberto I – la società trentina DNG – con apposito atto di compravendita, successivo a quello della cessione dell’intero complesso ospedaliero.

Tutto questo discorso non riguarda la chiesetta, a cui non è andato l’interesse statale; è stato il Comune di Venezia a stabilire che dovesse essere conservata, assieme ai padiglioni storici, attraverso la propria strumentazione urbanistica: la “Variante parziale al PRG per il centro storico di Mestre del compendio Umberto I” del 2005. Un vincolo urbanistico, dunque, suscettibile di essere modificato o soppresso da possibili ripensamenti del Comune, e non storico-artistico o architettonico, sotto tutela dello Stato.

Da quell’ormai lontano 2009 il cantiere dell’ex Umberto I è fermo, il recupero dell’area non è mai partito, i vecchi edifici stanno andando in rovina. Nel 2017 la DNG ha fatto fallimento, nel 2019 nella proprietà è subentrata la catena di supermercati Alì, che ha presentato un piano di riqualificazione al quale però non è ancora stato dato seguito4. Così, il “buco nero” di Mestre sta sempre là.
                                                                       

l'area dell'ex Umberto I vista dall'alto
Tuttavia non è esatto dire che nulla è successo. In seguito a una convenzione tra la proprietà e il Comune, nel 2014 nel vasto scoperto tra le vie Circonvallazione e Antonio da Mestre è stato creato un ampio parcheggio – provvisorio, che si vede nello slargo bianco della foto.

 

Il recupero della chiesetta

Ma un evento molto più significativo è stato il recupero e la valorizzazione della chiesetta, che nella foto si trova a destra del parcheggio, attorniata dal piccolo parco storico, perché in questo caso non soltanto si è salvato un manufatto di pregevole fattura, ma dentro e attorno a esso si è ricreato un contesto di socialità e relazioni. Protagonista di questo recupero è stata la comunità ortodossa moldava della città.

Esterno della chiesa restaurata. 2022
Già ai tempi in cui era proprietaria dell’area la società trentina DNG, gli ortodossi, in cerca di un luogo per il culto, avevano chiesto e ottenuto uno spazio nell’ex ospedale. Nella relazione di consulenza tecnica d’ufficio del fallimento DNG si cita una lettera, della quale non si riporta la data ma sicuramente precedente al novembre 2013, con cui la DNG concedeva alla “Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia ed Esarcato per l’Europa Meridionale” il piano terra della palazzina denominata “logistica di cantiere”.

Il consulente fallimentare ritiene che lo spazio in oggetto sia la chiesa, sebbene ciò non risulti esplicitato nella lettera. Il richiamo a una “palazzina” fa pensare tuttavia all’edificio posto sul lato est del giardino, il cui pian terreno si trova effettivamente oggi nella disponibilità della parrocchia. Nella lettera non vi è indicazione di durata e termine, bensì si specifica che “l’utilizzo autorizzato ha esclusivo carattere di temporaneità e, con la firma per accettazione della presente scrittura Vi obbligate a restituire immediatamente liberi i locali qualora da noi richiesto…”.

Nel novembre 2013, in seguito alla convenzione con la proprietà DNG, la chiesetta e il parco antistante, così come la ex casa delle suore e i padiglioni Pozzan, Cecchini e De Zottis passano nella disponibilità del Comune5.

L’anno seguente il commissario prefettizio Zappalorto, che amministra la città dopo le dimissioni della giunta Orsoni, concede la chiesetta in comodato d’uso alla Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia ed Esarcato per l’Europa Meridionale. Sostanzialmente una riconferma a rimanere nel luogo per gli attuali utilizzatori, per cui si è mossa anche la Chiesa cattolica. Al Comune ha rivolto una sollecitazione il patriarca Moraglia, tramite il suo vicario don Dino Pistolato.

Nell’incontro pubblico del 16 ottobre 2022: La città che cambia: la Comunità Moldava fa rivivere uno spazio abbandonato, Il parroco Anatolie Bitca e i suoi collaboratori hanno raccontato dello stato di abbandono, degrado e sporcizia in cui versava l’ambiente, diventato rifugio abituale di tossicodipendenti e senza tetto; del delicato, complicato lavoro di dialogo e mediazione per convincerli a lasciare il luogo; dell’impegno collettivo e della fatica nei mesi del restauro; della meraviglia alla visione della volta stellata dell’abside, rimosso lo strato di intonaco bianco che la ricopriva. L’interno è stato allestito e adornato secondo i precetti del rito ortodosso. Nell’edificio, consacrato e dedicato alla Natività della Madre di Dio, il 26 aprile 2015 è stata celebrata la prima funzione religiosa ufficiale.

interno della chiesa con l'allestimento ortodosso. 2022
Dovendo escludere che tali caratteristiche appartengano al parcheggio circostante, la chiesetta e il parco antistante sono i soli luoghi attualmente vivi e partecipati nel desolante panorama del “buco nero” mestrino.

Note

1Sulla storia del primo luogo di cura cittadino si veda: Claudio Pasqual: L’ospedale Umberto I di Mestre, 1906-2008, in Claudio Pasqual, Note mestrine. Cose viste, interventi, ricerche, Quaderni di storiAmestre, 18, Cierre, Sommacampagna (Vr) 2022, pp. 177-87

2Sui fratelli Berna si veda Breve storia dell’istituto Berna, https://istitutoberna.eu/isb/images/BreveStoriaDellIstitutoBerna.pdf.

3Sul sito di Castelvecchio si veda Wladimiro Dorigo, Mestre Medievale, “Venezia Arti”, 5, 1991, pp. 9-28, ripubblicato in Silvia Ramelli, Mestre medievale. Fascicolo insegnanti, Comune di Venezia, Venezia 2009, pp. 16-35.

4Per l’acquisto da parte di Alì e il masterplan del compendio ex Umberto I si veda https://www.alisupermercati.it/news/ali-presenta-castelvecchio-a-mestre-2008 e https://www.metropolitano.it/area-ex-umberto-i-progetto/.

5 La relazione 31 agosto 2018 dell’architetto Ruben Csermely, consulente tecnico d’ufficio nel procedimento fallimentare DNG, si può leggere in https://astetribunali24.ilsole24ore.com

Archiviato in:Claudio Pasqual, La città invisibile Contrassegnato con: area ex ospedale Umberto I, chiesa, Mestre

Affissione consentita. Il Primo Maggio degli anni Settanta.

01/05/2023

Di Walter Cocco

 

In occasione della festa del Primo Maggio il nostro socio Walter Cocco ha selezionato e fatto una lettura di alcuni manifesti presenti nel CD Rom: Affissione Consentita 40 anni di manifesti dall’Italia e dal mondo, pubblicato nel 2007 a cura di storiAmestre e del Centro di Documentazione della città contemporanea. Si tratta – come recita l’introduzione del CD Rom – di una collezione di circa quattrocento manifesti urbani, la gran parte dei quali proviene dal fondo “Maurizio Antonello”, a cui sono stati aggiunti altri manifesti tratti dall’Archivio Comunale di Venezia, la Celestia, e dalla raccolta privata di Giorgio Sarto.

 

 

IL CD Rom Affissione Consentita 40 anni di manifesti dall’Italia e dal mondo, pubblicato nel 2007 a cura di storiAmestre e del Centro di Documentazione della città contemporanea,1 è una preziosa raccolta di immagini che ha comportato un complesso lavoro di digitalizzazione e catalogazione dei manifesti2 che coprono un arco di tempo che va dagli anni Cinquanta sino agli anni Novanta del Novecento. Gli autori sono per la maggior parte istituzioni italiane e straniere, partiti e movimenti politici attivi nel quarantennio citato e le immagini ed i testi in essi contenuti sono diversi a seconda del momento della loro apparizione.

Come viene ricordato nel CD Rom il manifesto è un prodotto popolare, è vincolato al contingente, al “qui e ora”, esso è destinato ad apparire sui muri di palazzi, scuole e fabbriche per qualche giorno per poi essere strappato o ricoperto da altri manifesti. Per questo molto spesso – se non riporta una data – la sua collocazione temporale può avvenire soltanto attraverso una attenta analisi del testo o delle immagini in esso contenuti. Per le sue caratteristiche “non è affatto frequente che il manifesto sia raccolto e conservato, anche per l’ingombro che crea. Per propria natura ha un uso limitato nel tempo, una volta affisso porta una data di scadenza, si degrada facilmente esposto com’è a lacerazioni e intemperie, si stinge, si usura e nella stragrande maggioranza dei casi diventa la base per nuovi manifesti da sovrapporre”. Ed è proprio per questo che il CD Rom Affissione Consentita ha un importante valore di recupero documentario e valorizza una parte del patrimonio archivistico custodito dal Centro di Documentazione della città contemporanea che, oltre al Fondo Antonello, ospita anche l’archivio privato di Giorgio Sarto da cui provengono alcuni dei manifesti recuperati.

“Sfogliando” il Cd Rom abbiamo pensato che un buon modo per celebrare il Primo Maggio fosse riproporre alcuni manifesti sul Primo Maggio di cinquant’anni fa.

I manifesti che proponiamo sono cinque, in buona parte apparsi il 1 maggio 19733.

I primi tre sono i manifesti istituzionali per la celebrazione del Primo Maggio dei tre grandi partiti di massa dell’epoca: Democrazia Cristiana, Partito Socialista Italiano, Partito Comunista Italiano. Sono manifesti destinati all’affissione su tutto il territorio nazionale per la festa dei lavoratori, manifesti di celebrazione, scarni, con poche parole e nessun riferimento specifico all’agenda politica del momento.

 

 

Quello del Psi non ha testo, solo 1 maggio, un pugno con un garofano rosso ed il simbolo del partito. Il garofano rosso era uno dei simboli ricorrenti della festa del Primo Maggio in quegli anni, era costume diffuso andare in piazza con un garofano all’occhiello della giacca. Nel manifesto PSI, l’adesione alla festa dei lavoratori viene affidata alla sola immagine, nient’altro.

 

 

 

 

 

Il manifesto del PCI si affida invece alla replica di figure operaie che evocano una estetica da realismo sovietico e poche parole: Nell’unità dei lavoratori la garanzia di vittoria nella lotta per le riforme, per la democrazia, per la pace.

 

 

 

Il manifesto della DC mostra sullo sfondo una manifestazione in cui sventolano solo bandiere scudocrociate (che ricorda più un raduno del fronte anticomunista del 1948 che una manifestazione operaia) e in basso la frase: continua nella libertà l’azione dei lavoratori per il progresso della società italiana.

 

 

 

 

Gli ultimi due manifesti, invece, sono di produzione locale, prodotti con mezzi artigianali, non a stampa, da organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, ovvero da quelle organizzazioni nate sull’onda del movimento studentesco e operaio nel biennio 1968-1969.

 

Il primo è firmato Fronte unito per il socialismo, l’immagine riproduce operai che incrociano le braccia, una dichiarazione di sciopero, e vi sono una serie di parole d’ordine che definiscono gli obbiettivi dell’organizzazione, dalle piattaforme sindacali al socialismo: per la difesa e lo sviluppo dell’occupazione; per il ribasso dei prezzi e delle tariffe pubbliche; per un governo popolare senza la DC; per il pieno raggiungimento delle piattaforme contrattuali; per l’Internazionalismo proletario e per il Socialismo.

 

 

Infine l’ultimo manifesto è di sole parole, un dazebao per la convocazione della manifestazione unitaria della sinistra rivoluzionaria del 1 maggio a Mestre, un manifesto sottoscritto da: Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Organizzazione Comunista m – l fronte unito, Partito Comunista m – l Italiano. Le parole d’ordine sono: per un 1 maggio di lotta; per l’internazionalismo proletario contro l’imperialismo; per le lotte operaie popolari e studentesche contro il carovita, la ristrutturazione, la repressione; contro i padroni, il governo Andreotti, i fascisti. Anche qui il riferimento a lotte in agenda e obbiettivi più ampi.

 

 

Nel 1973 il mondo del lavoro – il movimento operaio come si diceva allora – gode ancora di buona salute, ha ancora una certa forza all’interno della grande industria metalmeccanica e chimica, la capacità di mobilitazione esplosa nel corso dell’autunno caldo non è venuta meno, il sindacato dei consigli può ora contare sulla legittimazione dello Statuto dei Lavoratori, approvato nel 1970 e proprio nel 1973 si affermerà per i lavoratori il diritto allo studio con l’avvio dei corsi delle 150 ore. La volontà di cambiamento generata dalle lotte nelle scuole, nelle università, nelle fabbriche non ha ancora esaurito la sua spinta propulsiva come si vedrà negli anni immediatamente successivi, anche se nell’autunno dello stesso anno affioreranno alcuni segnali negativi: l’11 settembre il governo di Unidad Popular di Salvador Allende, nato dalla vittoria alle urne, verrà violentemente stroncato dal golpe militare guidato da Augusto Pinochet. La fine del governo di Allende avrà importanti ripercussioni sulla politica italiana, il segretario del PCI Enrico Berlinguer prenderà spunto proprio dalle vicende cilene per lanciare la proposta di compromesso storico. Sempre nell’autunno 1973 gli esiti della guerra del Kippur porteranno i paesi produttori di petrolio (OPEC) a ridurre le estrazioni di greggio e ad aumentare i prezzi del petrolio innescando una crisi energetica che avrà gravi conseguenze sulle economie occidentali, metterà fine al periodo di crescita economica e darà il via ai processi di ristrutturazione industriale del modello fordista. Ciò detto, gli effetti negativi di questi eventi sulle lotte del mondo del lavoro tarderanno ancora qualche anno a manifestarsi, anzi la clamorosa vittoria del referendum sul divorzio dell’anno successivo, l’avanzata delle sinistre alle amministrative del 1975 e alle politiche del 1976, l’approvazione di importanti riforme quali il nuovo diritto di famiglia e la nascita del sistema sanitario nazionale, la conquista sul fronte sindacale del punto unico di contingenza sembrano i segnali di un profondo cambiamento avvenuto nella società in maniera irreversibile. Purtroppo sappiamo che non è stato così.

Buon Primo Maggio a tutti.

 

1 Il CD Rom Affissione Consentita è stato ideato dalla compianta Maria Luciana Granzotto e da Claudio Zanlorenzi e alla sua realizzazione hanno collaborato: Maria Luciana Granzotto, Angelo Nordio, Chiara Puppini, Mirella Vedovetto, Claudio Zanlorenzi, Claudio Pasqual, Rodolfo Marcolin e Adriano Meneguzzi.

2 Cfr. Introduzione al Cd Rom: “Ogni manifesto è corredato da una scheda che fornisce informazioni essenziali (l’anno, la fonte, la tipografia, l’oggetto o argomento, il titolo, la proprietà, le dimensioni)”.

3 Del 1 maggio 1973 sono sicuramente il manifesto del PSI, quello del Fronte Unito per il socialismo e quello della manifestazione unitaria di Mestre. Incerta invece la datazione del manifesto del PCI, è sicuramente degli anni Settanta ma non è certo che si riferisse allo stesso anno. Infine abbiamo voluto inserire anche il manifesto della DC che è del 1978; anno in cui il clima nelle fabbriche e nelle piazze sta già cambiando. Siamo in pieno rapimento Moro, qualche giorno dopo, il 9 maggio, il suo cadavere verrà trovato in via Caetani. Tuttavia della vicenda nel manifesto non vi è alcun riferimento. È un manifesto in cui il carattere “neutrale” del testo è tale che potrebbe essere stato utilizzato anche per il 1 maggio di un anno diverso da quello di edizione.

 

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La divisione Acqui a Cefalonia, primo atto della Resistenza italiana

18/04/2023

di Sandra Savogin

In occasione del 25 aprile riceviamo e pubblichiamo il testo che ci ha inviato la nostra socia Sandra Savogin sulla resistenza della divisione Acqui a Cefalonia.

Un estratto delle interviste che Sandra Savogin ha fatto agli ultimi reduci della divisione Acqui – alcuni scampati miracolosamente al massacro – e ai loro familiari, è visibile nel documentario "Cefalonia e Corfù. Testimoni della Acqui 1943-2017", pubblicato da Associazione Nazionale Divisione Acqui – Sezione di Padova e Venezia insieme a Iveser.

 

Il processo "Cefalonia"

L’eccidio dei militari italiani della Divisione Acqui risulta essere, per dimensioni, il più grave crimine di guerra compiuto dai tedeschi nei confronti degli italiani ma paradossalmente, anche perché compiuto dalla Wehrmarcht, il crimine rimasto maggiormente impunito.

Il tema è trattato con rigore nel bellissimo saggio Cefalonia. Il processo, la storia e i documenti di Isabella Insolvibile e Marco De Paoli. Il “processo Cefalonia” è stato celebrato solamente nel 2013, grazie alla determinazione del procuratore militare di Roma De Paolis e delle figlie di due ufficiali fucilati che si sono costituite parte civile, e si è concluso il 18 ottobre dello stesso anno con la condanna del caporale Alfred Störk all’ergastolo. Questa condanna stabilisce definitivamente le responsabilità, ma non modifica dal punto di vista simbolico la percezione, presente nelle vittime e nei loro famigliari, di una sostanziale impunità di cui hanno goduto i colpevoli per questa e per altre stragi compiute dalla Wehrmacht nel periodo successivo all’armistizio nelle isole greche. Può tuttavia restituire pienamente alla resistenza della Acqui a Cefalonia e Corfù il valore di primo atto della Resistenza Italiana, come tale consegnandolo alla memoria pubblica, superando sull’episodio i dubbi posti da una “memoria divisa”.

Nel suo saggio Isabella Insolvibile dimostra la legittimità e doverosità della scelta operata da Gandin di non cedere le armi e di resistere ai tedeschi, fatta in ottemperanza ad un ordine emanato dall’unico potere legittimato a farlo, quello del re e Badoglio. La reazione tedesca fu non solo illegittima, perché attuata in spregio di tutte le leggi di guerra, ma anche criminale perché spropositata e brutale per le sue proporzioni.

Di seguito, sulla base della ricostruzione fatta nel saggio di Insolvibile e De Paolis, vengono brevemente presentate le tappe della vicenda della Acqui.

Caduta di Mussolini e armistizio

Dopo la caduta di Mussolini il 25 luglio 1943, dovuta al pessimo andamento della guerra, il nuovo governo presieduto dal Maresciallo Pietro Badoglio attese fino al 3 settembre per firmare l’armistizio, che fu annunciato alla radio la sera dell’8 settembre. La notizia era stata tenuta segreta alle gerarchie militari, tranne che all’Alto Comando Militare, e nessun piano fu preordinato e trasmesso ai comandanti delle unità della Marina, dell’Aeronautica e dell’Esercito. Nemmeno al momento dell’annuncio Badoglio o l’Alto Comando impartirono direttive precise ai generali dei Corpi d’Armata, a parte l’indicazione di cessare le ostilità contro le forze angloamericane, ma di reagire ad “eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. L’esercito italiano in patria e nelle zone occupate si sfasciò e per una gran parte gli ufficiali accettarono di consegnare le armi ai tedeschi; tra questi vi fu anche il Generale Vecchiarelli, comandante della XI Armata in Grecia a cui appartenevano le truppe stanziate nelle isole ioniche.

La situazione a Cefalonia 

A Cefalonia il Generale Gandin si trovò di fronte alla stessa alternativa posta dai comandi tedeschi alle forze armate italiane: passare con i tedeschi, arrendersi e cedere le armi, resistere ai tedeschi, senza alcuna certezza di appoggi esterni. Il giorno 9 settembre iniziò a trattare con il tenente colonnello Barge, comandante delle forze tedesche, in quel momento minoritarie rispetto al contingente italiano. L’11 settembre arrivò un vero e proprio ultimatum tedesco, con l’intimazione di cedere le armi comprese quelle individuali, mentre nuove truppe tedesche sbarcavano nell’isola. Alcune batterie italiane aprirono il fuoco contro mezzi da sbarco tedeschi manifestando la volontà di non arrendersi. In modo informale venne svolta, su iniziativa di Gandin, una consultazione tra le truppe sulle tre alternative: alleanza con i tedeschi, cessione delle armi, resistenza. Era infine giunto anche un radiomessaggio dal governo italiano in cui si ordinava di considerare le truppe tedesche come nemiche: di conseguenza il 14 settembre Gandin comunicò ai tedeschi che “per ordine del comando supremo italiano” la Divisione Acqui non cedeva le armi.

La resistenza italiana e le stragi  

Gli uomini della divisione Acqui combatterono contro le truppe tedesche dal 15 al 22 settembre. Di fronte agli iniziali successi italiani i tedeschi risposero intensificando i bombardamenti con i caccia Stukas, che agivano indisturbati poiché i soldati della Acqui non disponevano di appoggio aereo. Nuove truppe sbarcarono e, informato dell’accanita resistenza della Acqui, il Fürher impartì l’ordine che a Cefalonia non venissero fatti prigionieri “a causa del loro comportamenti insolente”. Già dal 20 e 21 i tedeschi iniziarono ad uccidere a sangue freddo i soldati italiani che si erano arresi, senza rispettare le convenzioni internazionali sui prigionieri di guerra.

Gli italiani non venivano considerati nemici catturati ma traditori, perciò i loro corpi furono abbandonati per giorni all’aperto. Il 22 settembre, dopo che Argostoli fu occupata dai tedeschi, Gandin chiese ai tedeschi la resa senza condizioni che fu accettata. Il generale fu fucilato il 24 mattina e tutti gli altri ufficiali furono condotti al capo San Teodoro e fucilati. Secondo le fonti italiane gli ufficiali e i sottoufficiali passati per le armi furono 136.

E’ tutt’ora molto complessa e lungamente discussa la stima esatta dei caduti o dispersi a Cefalonia e Corfù, per la disparità delle cifre presenti nelle numerose fonti e nelle diverse pubblicazioni. La lapide posta sul monumento ai caduti di Cefalonia e Corfù, inaugurata nel 1978 riporta, secondo stime del Ministero della Difesa, il numero complessivo di 9.970 di caduti tra soldati e ufficiali. Le pubblicazioni recenti Cefalonia di Elena Aga Rossi e Né eroi, né martiri solamente soldati di Camillo Brezzi propongono che gli italiani della Divisione Acqui morti in battaglia o fucilati dai tedeschi dopo la cattura siano stati 3.800 circa.

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Progetto Associativo storiAmestre e nuovo direttivo 2023-2024

17/04/2023

Il direttivo di StoriAmestre 2023/24
 

Mercoledì 29 marzo 2023 si è riunita l’Assemblea di storiAmestre nella sede di via Tiepolo, Zelarino-Mestre e ha votato il Progetto associativo e il nuovo Direttivo per il 2023-24.

Il Progetto associativo, conseguente agli esiti dell’esplorazione fatta tra soci e affezionati all’Associazione attraverso focus group e questionari, si struttura in due macro ambiti di lavoro.

1. Il macroambito di ricerca e produzione culturale con i seguenti Gruppi di lavoro:

  • Gruppo Voci Fuori Luogo con compiti di ricerca e realizzazione momenti pubblici sulle trasformazioni urbane con specifica attenzione alla composizione multiculturale della città.

  • Gruppo Anniversario Legge 150 ore con compiti di collaborazione con SPI CGIL e gruppo Nicola Saba per impostare una ricerca sulle 150 ore alle superiori a 50 anni dalla legge istitutiva, con realizzazione di interviste e produzione dei materiali che ne conseguono.

  • Centro di Documentazione della Città Contemporanea, con i seguenti filoni di lavoro:

  1. Gruppo che comprende il Fondo Antonello, i Materiali depositati nel sito storiamestre.it, le Pubblicazioni dell’Associazione con compiti di raccolta e archiviazione documenti, utilizzo dei  documenti archiviati per realizzazione attività con Università, scuole, singoli studenti;
  2. Gruppo/sito Marzenego con compiti di riorganizzare il sito ilfiumemarzenego.it con possibili nuovi inserimenti e utilizzare il sito, la mostra, il gioco dell’oca in attività e incontri anche con  scuole.
  • Gruppo incontri su temi storici di attualità aperti ai soci e alla cittadinanza.

2. Il macroambito di supporto alle attività associative per la produzione e divulgazione della storia contemporanea con due strumenti di lavoro:

il Sito storiamestre.it con compiti di comunicazione delle attività e ricerche dell’Associazione e relative elaborazioni prodotte dai soci; pubblicazione di scritti ed elaborati di storici e/o appassionati di storia; promozione materiali prodotti fino ad oggi e depositati nel sito stesso; promozione pubblicazioni dell’Associazione.

La Pagina Facebook con compiti di comunicazione attività associative e promozione materiali prodotti al fine di contribuire alla diffusione delle iniziative e alla “visibilità sociale e culturale” dell’Associazione.

L’Assemblea ha poi votato il nuovo Direttivo di storiAmestre formato da:

Fabio Brusò (Vicepresidente), Walter Cocco (Referente per il Bilancio), Giovanna Lazzarin (Segretaria), Maria Marchegiani, Paola Sartori (Presidente),

con compiti di orientamento della mission associativa; promozione scambi e collaborazione tra socie e soci e tra i diversi gruppi di lavoro; cura delle relazioni interne ed esterne e rappresentanza dell’Associazione in caso di interlocuzione con istituzioni varie.

Il Direttivo di storiAmestre

 

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Un regalo è per sempre. Le strenne di storiamestre.it

24/12/2022

di redazione storiamestre.it

Auguri da storiAmestre

Quest’anno porgiamo i nostri migliori auguri di buone feste di fine e inizio anno frugando in quel grande sacco pieno di pagine da leggere che è storiamestre.it. Nessuna novità, dunque, ma regali che sono rimasti, al di là dell’occasione. E le occasioni che ci siamo inventati di volta in volta sono state quelle di sannicolò, il 6 dicembre – trovate tutti i doni a questo link; quelle del ciclo 24 dicembre-6 gennaio – trovate tutto a questo link; e una volta è arrivata persino santa Lucia, un 13 dicembre.

Ci piace ricordare e ringraziare chi, di anno in anno, ci ha aiutato a fare i pacchetti:

Benjamin Arbel, Romano Banco, Giuliana Bertacchi, Giovanna Bison, Piero Brunello, Pergentino Burdizzo, Alberto Cavaglion, Gigi Corazzol, Giacomo Dall’Agnol, Vincenzo Antonio Formaleoni, Giuseppe Maria Galanti, Guido Gambaredo, Mario Infelise, Andrea Lanza, Giovanni Levi, Matteo Melchiorre, Clemente Miari, Reinhold Mueller, Ippolito Nievo, Sannicolò, Lucio Sponza, Mario Tonello, Maria Turchetto, Giannarosa Vivian, Enrico Zanette.

(fb, pb, al, ez)

Auguri da storiAmestre

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