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Energia contro agricoltura. Pagine dal nuovo libro di Giacomo Bonan

16/01/2021

di Giacomo Bonan

Riprendiamo alcune pagine dal libro del nostro amico e socio Giacomo Bonan, Le acque agitate della patria. L’industrializzazione del Piave (1882-1966), da poco uscito per l’editore Viella. Giacomo vi ricostruisce le vicende delle trasformazioni della rete idrografica del fiume durante la transizione industriale dell’Italia, periodo che comincia appunto negli ultimi decenni del XIX secolo e giunge a compimento negli anni Sessanta del Novecento. “Tra le diverse attività connesse all’uso delle acque – scrive nella sua introduzione –, sono tre quelle che hanno contribuito a trasformare il regime idraulico del Piave e la morfologia del bacino in quel periodo: bonifica, irrigazione, produzione di energia idroelettrica. Lo sviluppo simultaneo di questi settori scatenò una serie di contrasti per l’uso delle acque”. Le pagine che riprendiamo qui ricostruiscono la competizione per l’impiego del sistema Piave-lago di Santa Croce tra la Sade e il consorzio della Brentella: quanta acqua per produrre energia idroelettrica e quanta acqua per gli usi agricoli. Questo caso era quello che Bonan aveva scelto di illustrare a soci-e e amici-che di storiAmestre nel settembre 2019, in occasione di un incontro pubblico ospitato dal Dopolavoro ferroviario a Mestre.

Il 3 settembre del 1920, a meno di un anno dalla precedente concessione, fu presentata una nuova domanda di derivazione da parte della Cellina, anche se la procedura sarebbe stata portata avanti dalla Società idroelettrica veneta (Siv), sempre appartenente al gruppo Sade, che assorbì la Cellina nel 1921. La domanda prevedeva un esponenziale aumento del prelievo dal Piave, dai 6 mc/s già concessi a 30 medi annui, che potevano oscillare tra un massimo di 80 e un minimo di 8 mc/s. Il rilascio da garantire a valle della derivazione di Soverzene veniva dimezzato a 12 mc/s.

Il progetto avrebbe cambiato la natura stessa del sistema Piave-Santa Croce rispetto a come era stato concepito originariamente. Infatti, fino a quel momento, il lago era funzionale soprattutto a produrre una riserva di energia nella stagione di magra dei fiumi veneti. In altre parole, esso doveva supplire ai cali degli impianti principali sul Cellina e sul Cismon. Il nuovo progetto, invece, lo rendeva il perno dell’organizzazione produttiva della Sade, tanto che era prevista la trasformazione del lago in un bacino artificiale, con la costruzione di una diga che ne avrebbe aumentato la capacità da 75 a 120 milioni di mc, la realizzazione di due nuove centrali e l’ampliamento di quelle già esistenti.

Il limitato intervallo di tempo tra la precedente concessione e la nuova domanda di derivazione fu così giustificato dalla Sade in un passaggio del progetto esecutivo che descriveva le centrali già in funzione (Fadalto e Nove):

Iniziatisi subito i lavori, le due centrali andarono in esercizio negli anni 1913 e 1914. In seguito gli impianti vennero completati con l’installazione di altri gruppi in previsione della chiesta concessione di mc. 6 dal Piave, concessione poi ottenuta solamente il 16 Ottobre 1919. Nel frattempo, in relazione agli studi fatti, e in armonia coi nuovi orientamenti tecnici e legislativi nello sfruttamento delle energie idrauliche, la Società aveva preparato un più grandioso e completo progetto, in base al quale in data 3 settembre 1920 presentava regolare domanda di derivare acqua dal Piave […].

Il primo dato che emerge da questo brano è che le centrali erano già state potenziate prima ancora di chiedere la derivazione che avrebbe giustificato tale potenziamento. Ottimismo? La convinzione di coloro che si opponevano alle richieste della Sade, più volte ribadita sia in sede istituzionale sia sugli organi di stampa, era che gli interessi del gruppo fossero incondizionatamente favoriti da parte degli apparati che facevano riferimento al Ministero dei lavori pubblici. Sospetti di questo tipo accompagnarono tutte le principali iniziative del gruppo e in tempi più recenti, grazie alle indagini che hanno fatto seguito alla tragedia del Vajont, hanno trovato conferma grazie a diverse inchieste giornalistiche e giudiziarie.

Date le minori informazioni disponibili sulle prime derivazioni, è difficile stabilire quali fossero allora le capacità di condizionamento della Sade nei confronti di autorità di controllo formalmente indipendenti. In generale, si tratta di un problema connaturato ai meccanismi stessi che regolano il mercato delle concessioni. Oliver Williamson li descrive così: «i continui contatti fra le industrie da regolamentare e gli enti preposti alla regolamentazione sono così stretti, lo scambio del personale così comune e la capacità di influenzamento dei consumatori così ridotta (al confronto), che è accaduto l’inevitabile: in varia misura le commissioni sono state ‘catturate’». Non si tratta di un problema valido solo per il presente. Ho tratto questa citazione da un libro di Gigi Corazzol dedicato a un mercante di legname attivo nella prima metà del Seicento. Nel valutare le procedure di assegnazione dei lotti boschivi, Corazzol è ancora più esplicito: «è possibile che allora valesse, ancor più di quello che vale oggi, la cruda regola secondo cui gli esperti messi a capo delle infinite authorities che vigilano sul nostro bene se sono competenti è più probabile che siano collusi. Se non sono collusi è probabile che non siano competenti».

Questa commistione tra controllati e controllori aveva caratterizzato da subito la disciplina delle grandi derivazioni con scopo idroelettrico. I legami potevano essere il risultato di costanti contatti lavorativi o del sistema delle porte girevoli tra le due carriere, come nel caso di Aristide Zenari, che fu nominato direttore dei cantieri e della parte idraulica della Cellina appena concluse il suo incarico presso il Genio civile di Udine. Tali situazioni erano la conseguenza di una formazione condivisa, da cui spesso derivava un modo affine di porsi di fronte alle questioni idrauliche. Come ha notato Toni Sirena, non c’è da stupirsi se gli ingegneri del Genio civile consideravano favorevolmente il primo progetto della Cellina, poiché negli anni successivi rivendicarono con orgoglio di essere stati i primi a ipotizzare un intervento del genere. […]

Ritengo opportuno sottolineare un secondo elemento nel breve estratto del progetto esecutivo della nuova derivazione: è la locuzione temporale «nel frattempo»; essa implica che un nuovo ampliamento era stato avviato quando la precedente richiesta era ancora in fase di istruttoria. È possibile escludere che si tratti di un lapsus grazie almeno a due scritti successivi di esperti che collaborarono a vario titolo con il gruppo Sade: il docente di idraulica dell’Università di Padova Francesco Marzolo e uno degli ingegneri che realizzarono il progetto, Carlo Semenza. Entrambi confermano che un aumento dei prelievi era già stato programmato prima della conclusione della pratica che portò alla concessione del 1919.

[…]

Con il completamento del progetto del 1909, inizialmente presentato in forma unitaria e poi realizzato in due parti distinte – come disposto dalle concessioni del 1911 e del 1919 – la Cellina era riuscita a ottenere il controllo del lago di Santa Croce e la possibilità di usare il lago come bacino di regolazione per sfruttare anche le acque del Piave. Per farlo aveva dovuto superare diverse opposizioni, tra cui le più tenaci erano state quelle provenienti dal Bellunese (provincia, camera di commercio e comune di Belluno), volte a tutelare alcune attività economiche (fluitazione del legname) o a proporre progetti idroelettrici alternativi e più confacenti alle esigenze locali.

Le prime due domande di derivazione avevano suscitato la resistenza anche di diversi utenti del Piave in pianura, tra cui quello storicamente più rilevante: il consorzio Brentella. Tuttavia, a differenza delle opposizioni avanzate da enti della provincia di Belluno, quelle del Brentella non avevano lo scopo di bloccare le iniziative della Cellina, ma solo di assicurarsi che le nuove derivazioni non influissero sui diritti già acquisiti dal consorzio. Queste istanze furono garantite anche nel disciplinare di concessione della derivazione ottenuta dalla Cellina nel 1919. In quest’occasione, il Genio civile specificò che il prelievo non doveva superare i 6 mc/s in modo tale da non condizionare in alcun modo gli usi irrigui preesistenti.

Fino a quel momento, la strategia del gruppo Sade era stata caratterizzata da richieste di derivazione sottodimensionate rispetto alla capacità produttiva degli impianti alimentati dal lago. Tuttavia, in quella fase si rese improcrastinabile il completamento del «più grandioso e completo progetto» già disposto negli anni precedenti. Diverse ragioni motivarono quest’accelerazione, tra cui la necessità di garantire il fabbisogno energetico del polo industriale di Marghera, allora in fase di costruzione. Soprattutto, con la fine del conflitto, era ripresa a pieno ritmo l’attività di bonifica nel basso Piave ed erano ormai pronti i progetti irrigui che avrebbero portato al potenziamento del consorzio Brentella e alla creazione del Canale della Vittoria. Solo questi ultimi due prevedevano una derivazione complessiva dal Piave che poteva arrivare a 49 mc/s nei periodi estivi. Poiché le centrali servite dal lago di Santa Croce non restituivano l’acqua al Piave, ma la scaricavano nel bacino del Livenza, il sistema doveva essere portato a pieno regime prima che fossero concesse nuove – e imponenti – utenze in pianura che, se autorizzate, avrebbero implicato forti vincoli per ulteriori possibilità di derivazione a Soverzene.

La corsa all’acqua iniziò con la presentazione formale della richiesta di derivazione del Canale della Vittoria alla fine di luglio del 1920. La domanda prevedeva un prelievo a Nervesa di 19 mc/s nei mesi estivi da modulare fino a 12 mc/s nei mesi invernali. La finalità principale dell’intervento era l’irrigazione di un comprensorio di 26.000 ettari situato sulla destra del Piave, ma l’acqua doveva alimentare anche due centrali idroelettriche, motivo per cui la derivazione non era limitata alla stagione agricola. A una settimana di distanza venne presentata la domanda di aumento della derivazione verso il lago di Santa Croce già programmata da tempo dalla Sade (che agiva attraverso le sue controllate: prima la Cellina, dal 1921 la Siv). Data la rilevanza della portata richiesta (30 mc/s medi annui che potevano arrivare fino a un massimo di 80 mc/s), la domanda provocò l’opposizione di tutti i principali soggetti interessati alle acque del Piave a valle di Soverzene, in particolare degli utenti irrigui e degli enti pubblici di pianura.

Nell’area del basso Piave, i consorzi di bonifica e le amministrazioni comunali consideravano la nuova richiesta di derivazione una minaccia esplicita al completamento del processo di bonifica agraria e sociale. Infatti, la sola acqua disponibile in quel territorio per usi agricoli e domestici era prelevata dal fiume grazie a delle chiaviche, «poiché con pozzi comuni, a 5/6 metri, essa [l’acqua] è salata e non sempre si ha con i pozzi artesiani senza parlare del costo loro altissimo». Un’ulteriore minaccia era individuata nell’innalzamento del cuneo salino (allora definito salinizzazione): l’intrusione dell’acqua marina nell’area della foce del Piave che sarebbe seguita alla diminuzione della portata del fiume.

Nell’alta pianura trevigiana, il Canale della Vittoria dichiarò da subito la sua richiesta di derivazione incompatibile con quella della Sade. Una posizione analoga fu assunta dal Brentella che, nei mesi successivi, avanzò a sua volta una richiesta per poter derivare 12 mc/s oltre ai 24 già consentiti nei periodi estivi. L’aumento del prelievo era possibile grazie all’imminente costruzione delle nuove opere di presa ed era destinato anche in questo caso a garantire un incremento della superficie irrigabile e a produrre energia attraverso alcune centrali idroelettriche di medie dimensioni. Inoltre, i consorzi sostenevano che un’eventuale diminuzione delle portate a loro disposizione avrebbe prodotto ricadute anche sul regime di alcuni fiumi di risorgiva, le cui falde erano in parte alimentate dall’acqua distribuita attraverso i canali irrigui, e quindi sulle attività economiche dei territori a valle. Queste posizioni furono supportate dalla provincia di Treviso e da diversi comuni dell’area.

Per cercare di superare almeno una parte delle opposizioni, la Sade decise di modificare le modalità di rilascio delle acque nel Meschio al termine dello sfruttamento idroelettrico, con la progettazione di un secondo punto di scarico nel medesimo torrente, ma a una quota altimetrica maggiore. Questa variante avrebbe consentito di riutilizzare tali portate per irrigare l’area dell’alta pianura trevigiana compresa tra il Meschio e la sponda sinistra del Piave. Il nuovo progetto trovò il sostegno dei comuni dell’area, oltre che di diversi soggetti pubblici e privati, che si riunirono il 29 maggio 1921 assieme a una delegazione della Sade e diedero vita al comitato promotore per il costituendo consorzio irriguo “Sinistra Piave”, alla cui presidenza fu nominato il sindaco di Conegliano. Dato che la possibilità di realizzare gli interventi irrigui previsti era vincolata all’aumento degli scarichi nel Meschio, l’azione del comitato fu completamente orientata ad appoggiare l’iniziativa della Sade contro le altre utenze della provincia di Treviso che derivavano acqua dal Piave.

Le tensioni tra le contrastanti richieste di derivazione e tra gli interessi a esse collegati si acuirono nell’estate del 1921, che fu caratterizzata da un’estrema siccità. In quella fase, divenne evidente a tutti i principali utenti del Piave che in caso di forti e prolungate magre l’acqua disponibile non era sufficiente nemmeno per garantire le sole derivazioni già concesse. A farne le spese furono soprattutto i territori geograficamente più svantaggiati del basso Piave, dove la forte risalita del cuneo salino compromise quasi interamente la stagione agricola e impose grandi sacrifici alla popolazione anche solo per soddisfare gli usi alimentari.

Queste tensioni raggiunsero il culmine con l’approssimarsi della visita di istruttoria della domanda della Sade, fissata per il 10 giugno 1922. In tale data era previsto il sopralluogo dei terreni interessati dal progetto, durante il quale i tecnici della società avrebbero esposto le loro argomentazioni agli ingegneri del Genio civile che seguivano la pratica, mentre qualsiasi altro soggetto avrebbe potuto presentare le proprie opposizioni e motivarle. In un’istanza inviata al Ministero dei lavori pubblici e contenente l’ennesimo atto d’accusa contro le richieste della Sade, la presidenza del Brentella avvertì che la semplice prosecuzione dell’istruttoria poteva produrre delle gravi ripercussioni sul piano sociale: «si provocherebbe nell’ordine pubblico tale perturbamento da non potersene prevedere le conseguenze, oggidì specialmente che le popolazioni sono così pronte, così facili ad agitarsi e anche a trascendere». Quello espresso dalla presidenza del Brentella non era un timore, ma una minaccia che i vertici del consorzio tentarono anche di portare a compimento in occasione della visita d’istruttoria, quando il prefetto di Treviso vietò la partenza di un treno speciale che doveva condurre da Montebelluna a Ponte nelle Alpi centinaia di agricoltori dell’alta pianura trevigiana. Il treno era stato organizzato dal consorzio, formalmente con la motivazione di dare a tutte le persone interessate la possibilità di esprimere la propria contrarietà al progetto della Sade; mentre secondo le autorità l’obiettivo dell’iniziativa era impedire che si svolgesse la visita d’istruttoria.

Oltre a questa capacità di mobilitazione popolare, i consorzi irrigui avevano anche validi appoggi istituzionali a livello locale e nazionale. In altre parole, questi enti rappresentavano interessi politici ed economici più rilevanti delle amministrazioni di montagna che si erano opposte alle precedenti domande di derivazione verso il lago di Santa Croce. Non tali da bloccare i progetti di espansione di un gruppo che era ormai diventato il principale soggetto economico della regione e uno dei più rilevanti a livello nazionale, ma almeno sufficienti per strappare concessioni favorevoli e clausole volte a tutelare le loro prerogative. Così, dopo le forti tensioni che avevano contraddistinto la visita d’istruttoria, si svolsero alcuni incontri tra la Sade e il Brentella, organizzati dalla deputazione provinciale di Treviso nelle settimane successive e che si risolsero con esito favorevole. Una mediazione analoga era già stata conclusa con il Canale della Vittoria. Pertanto, il 15 luglio 1922, fu stipulato un accordo tra la Siv (cioè la Sade) e i due consorzi che comportò il ritiro delle loro opposizioni. A questo punto, la strada era spianata per l’approvazione della nuova derivazione che fu definita con il disciplinare del 18 ottobre 1922, alla vigilia della marcia su Roma. Le nuove opere di presa furono inaugurate nel giugno successivo dal presidente del consiglio Benito Mussolini.

La concessione accordava alla Sade i prelievi richiesti: 30 mc/s medi annui che potevano arrivare fino a un massimo di 80 mc/s. Quest’acqua veniva accumulata nel lago di Santa Croce, la cui capacità d’invaso doveva essere aumentata a 120 milioni di m3 con la costruzione di una diga, e da qui condotta in galleria oltre il valico del Fadalto, dove iniziava lo sfruttamento attraverso tre impianti consecutivi: Fadalto (con scarico nel lago Morto), Nove (con scarico nella località detta “stagni di Nove”), San Floriano (con scarico nel laghetto di Negrisiola). A questo punto, una parte dell’acqua disponibile era indirizzata verso la centrale di Caneva, nei pressi di Sacile, e infine immessa nel basso corso del Meschio. L’acqua rimanente era invece destinata alla centrale di Castelletto, che scaricava in un punto più a monte del medesimo torrente. Quest’ultima portata avrebbe alimentato le utenze del consorzio Sinistra Piave (26.000 ettari) – di fatto una propaggine irrigua del sistema Piave-Santa Croce – che furono successivamente regolate con il disciplinare del 26 gennaio 1926. I canali del consorzio dovevano anche servire per restituire una parte dell’acqua scaricata nel Meschio al bacino del Piave, in prossimità di San Donà.

Nota. Tratto da Giacomo Bonan, Le acque agitate della patria. L’industrializzazione del Piave (1882-1966), Viella, Roma 2020, pp. 95-105; la citazione nel cappello redazionale è ivi, pp. 16-17. Oltre ai tagli segnalati nel testo, per questa presentazione sono state omesse e tagliate quasi tutte le note, in particolare quelle archivistiche. La documentazione su cui si basano queste pagine, e tutta la ricerca di Bonan, è tratta soprattutto da relazioni tecniche, discussioni e delibere conservate negli archivi comunali, dall’archivio storico dell’Enel, dall’archivio del Genio Civile di Belluno. Scrive Bonan nell’introduzione: “Informazioni quantitative e dati tecnici di varia natura [:] la maggior parte delle fonti su cui si basa questa ricerca sono di questo tipo. Infatti, la storia dell’industrializzazione del Piave è stata scritta in primo luogo dagli ingegneri: quelli che per conto di interessi privati proponevano interventi di trasformazione idraulica e quelli che nella pubblica amministrazione dovevano valutare questi progetti e sovrintenderne l’esecuzione. Spero che questa documentazione, con i suoi molti e inevitabili tecnicismi, non intimorisca i lettori. Infatti, senza tenere in debito conto questo lessico e questi modelli argomentativi non è possibile comprendere il modo in cui i principali soggetti coinvolti nella gestione delle acque del Piave percepivano e quindi rappresentavano le risorse idriche. In altre parole, non si può comprendere l’ideologia sottesa all’industrializzazione del fiume” (ivi, p. 18).

Archiviato in:Giacomo Bonan, Letture Contrassegnato con: acque, industrializzazione, pagine scelte, Piave, storiografia

La salicornia rifiorirà a Fusina? Immagini dell’area della ex Sava (Porto Marghera, 2010)

06/01/2021

di Giovanna Bison

Condividiamo con le lettrici e i lettori del sito il regalo che ci ha fatto la nostra amica Giovanna Bison. Si parte, anche questa volta, da una tesi di laurea triennale in Discipline dell’Arte, della Musica, e dello Spettacolo discussa presso l’Università di Padova: un lavoro compiuto nel 2010 all’interno e nei dintorni della fabbrica abbandonata della ex Sava. Le immagini sono il frutto di una ricognizione cominciata tenendo presente la storia della documentazione fotografica relativa all’area industriale e i modelli dell’archeologia industriale, ma che a poco a poco ha cambiato di senso. Con una conclusione dal sapore leopardiano, in attesa di un nuovo sopralluogo – forse – a dieci anni di distanza.

Laurearsi al DAMS di Padova

Il lavoro che ho fatto per l’Università di Padova ha compiuto dieci anni. Allora mi proponevo una ricognizione fotografica all’interno della fabbrica abbandonata della ex Sava. 

L’esplorazione partiva da un approfondimento bibliografico sulle origini e sullo sviluppo di questa particolarissima zona industriale, con riferimento soprattutto a Fusina, ultima propaggine di Porto Marghera. Seguiva un’indagine, in ordine cronologico, sugli studi fotografici (uno su tutti l’archivio Giacomelli) che avevano compiuto lavori di reportage su queste realtà. Le mie foto dovevano scandire il disfacimento delle cattedrali ferrose, destinate a diventare archeologia industriale. 

A ogni passo, a ogni foto, il mio atteggiamento cominciò però a cambiare. 

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Il naufragio della Veniera. Notizie da Cipro, primi mesi del 1499

31/12/2020

di Benjamin Arbel

Il naufragio di una nave veneziana ormai in vista del suo approdo a Cipro, il 27 febbraio 1499. Stando ai documenti non ci furono vittime e almeno una parte del carico venne recuperata. Ecco una “battuta d’arresto” – nota il nostro amico Benjamin Arbel concludendo la sua lettura delle fonti disponibili – che ci permette di cogliere il flusso degli scambi di uomini e mercanzie nel Mediterraneo alla fine del Medioevo 

Il saggio di Arbel ci rimanda a eventi calamitosi, a un tempo sospeso, a frammenti di informazioni – senza trama e senza finale –, a un elenco di merci, a spostamenti, viaggi e scambi che continuano comunque incessanti. Ci è sembrata, oggi, una strenna appropriata a questi tempi che ci sono dati da vivere. 

1. In una lettera del 7 marzo 1499, i governatori della colonia veneziana di Cipro annunciano nei termini seguenti il naufragio nei pressi delle Saline di San Lazzaro, l’ancoraggio principale sulla costa meridionale dell’isola: “Con gran displicentia significhemo a la Serenità Vostra esser rotta adì 27 fevrer de notte a Saline la nave patron Pasqual Vidale, la qual senza fortuna per mal governo hebe questo naufragio”. Ulteriori informazioni sulla sciagura si trovano nel diario veneziano di Marino Sanuto. Riferendosi a una lettera scritta il 5 marzo dello stesso anno dal capitano di Famagosta il diarista nota, tra l’altro, il “rompersi di la nave patron Pasqual Vidal, zoè Veniera, participi sier Paolo Loredan e sier Marco Querini, sora le Saline”. Secondo la stessa lettera, “è sta recuperà solamente li gropi d’oro e d’argento”.

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“Alzare la voce in nome di istanze morali”. Da un libro di Luciano Gallino

22/12/2020

di Piero Brunello

Su consiglio del nostro socio e amico Giacomo Bonan, Piero Brunello ha letto un libro-intervista di Luciano Gallino. Prosegue così la discussione sui temi del libro di Marco D’Eramo, Dominio, aperta da Sannicolò e ripresa da Mario Tonello e Maria Turchetto. 

1. La letterina con cui Sannicolò ci ha presentato il libro di Marco D’Eramo ha avuto l’effetto di far discutere tra noi soci e amici. Quando ne ho parlato con lui, Giacomo Bonan mi ha subito consigliato di dare un occhio a La lotta di classe dopo la lotta di classe (intervista a cura di Paola Borgna, Laterza, Roma-Bari 2013, prima ed. 2012), perché Luciano Gallino, intervistato da Paola Borgna, si occupa degli stessi temi del libro consigliato da Sannicolò.

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“No farmers, no food”. Chi manifesta a Toronto per i contadini del Punjab (dicembre 2020)

19/12/2020

di Andrea Lanza

Il nostro amico e corrispondente da Toronto si trova a seguire per caso una manifestazione che si svolge nel centro della capitale dell’Ontario e scopre una mobilitazione in corso nel Punjab. Si torna a un tema che abbiamo già incrociato con le recenti letture del libro di Marco D’Eramo: liberalizzazione è un eufemismo della nuova lingua, sta per incremento dello sfruttamento e dell’oppressione a favore delle grandi multinazionali, con il sostegno degli Stati. Tanti piccoli gruppi, sparsi per il mondo, dichiarano che questo mondo non è ovvio né inevitabile.

1. Martedì 1 dicembre ho finito la mia lezione online verso le quattro, con il solito senso di frustrazione per la stentata interazione virtuale con gli studenti. Dal basso provengono incessanti suoni di clacson e un confuso vociare. È diverso dalla voce enfatica, amplificata dalle casse portatili, del predicatore di strada che spesso si mette all’incrocio qui sotto, ventisei piani più in basso, per esortare la gente a ravvedersi. Mi affaccio: c’è una lunghissima colonna di veicoli che tendono a bloccare il traffico. Dai finestrini e dai tettucci spuntano braccia, teste, cartelli e qualche bandiera. Non sono in grado di decifrare i segni. 

Questi cortei motorizzati non sono eccezionali a Toronto. Dicono qualcosa su dove abitano i manifestanti: gli infiniti sobborghi della classe media, da cui ci si muove quasi solo in macchina. Difficile invece capire a colpo sicuro il senso della loro protesta. Diverse settimane fa, per esempio, mi era capitato di veder passare un’infinita fila di veicoli clacsonanti scendere su uno degli assi principali della città, verso Dundas Square: erano armeni che denunciavano la guerra in Nagorno-Karabakh.

Per via di alcuni grossi pickup scuri, mi convinco che in questo caso sia un corteo di quel crogiuolo piuttosto eterogeno che ho già visto concentrarsi nella vicina Dundas Square, la piccola Times Square torontina, il sabato pomeriggio, per denunciare la dittatura sanitaria, il soffocamento da mascherina e un assortimento vario di complotti. E che inneggia indomito a Trump.

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“Non ‘sembrava’ gentile, ‘era’ proprio così”. Un ricordo di Paolo Rossi dalla città che ha continuato ad amarlo

16/12/2020

di Elvio Bissoli

Il nostro socio e amico Elvio Bissoli ha partecipato all’omaggio che Vicenza ha dedicato a Paolo Rossi dopo la sua morte, avvenuta il 9 dicembre 2020. Ci ha scritto per ricordare i tempi in cui RossiGol (non ancora Pablito) giocava con il Lanerossi Vicenza, e spiegare perché la città ha continuato ad amarlo, fino a perdonargli perfino di aver vestito la maglia dell’Hellas Verona. Ritratto sentimentale di un giovane calciatore.

Quasi diecimila persone, un lungo serpentone che circondava le mura scrostate del vecchio stadio “Menti”, in attesa di poter entrare nel campo di gioco dove era depositata la bara di Paolo Rossi e salutare un amico tornato nella città che ha continuato ad amarlo, anche dopo tante peregrinazioni in squadre molto più blasonate del Lanerossi Vicenza. Eppure Paolo Rossi (per i tifosi vicentini RossiGol) è rimasto solo tre stagioni al Vicenza, ma nessuno come lui è entrato in sintonia con questa città sonnolenta, un po’ ipocrita e troppo spesso immobile e impegnata a rimirare le sue bellezze architettoniche. Così amato da perdonargli di aver concluso la sua breve carriera (a trentun anni) nell’odiatissimo – calcisticamente parlando – Hellas Verona: il più diffuso quotidiano locale lo ha ricordato pubblicando le sue foto con le maglie di tutte le squadre dove ha militato omettendo, piamente o perfidamente, quella in gialloblù.

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